“Il matrimonio segreto” secondo Pier Luigi Pizzi: attualizzare per avvalorare
Talvolta capita di andare all’opera e rimanere folgorati. È una sensazione strana, come se tutta la propositività dell’anima tendesse improvvisamente all’interesse per una situazione, per una nota, per un colpo di bacchetta, per l’angolo d’una scena, per i gesti di un cantante. La folgorazione non è un semplice slancio di piacere per la resa di una trama; è, piuttosto, il boato silenzioso che deflagra e implode nel cervello dell’astante, è il terremoto che coinvolge e sconvolge i cardini vitali strappando le cerniere entro le quali ci siamo vincolati. E, diciamolo subito, “Il matrimonio segreto” di Domenico Cimarosa secondo Pier Luigi Pizzi, prodotto e presentato al Festival della Val d’Itria, merita davvero di essere annoverato come impresa dal carattere squisitamente sfolgorante.
Siamo a Torino. La splendida cornice per questo spettacolo è quella del Teatro Regio, che con la direzione artistica di Sebastian Schwarz sta davvero rivelandosi per tutto il bello che si può offrire a un pubblico eterogeneo. Il sipario non si apre in due, va dal basso verso l’alto per svelare, innanzitutto, una scenografia semplicemente stupefacente, elettrizzante: tre stanze in un unico open space asettico, dove gli arredi già la dicono lunga su parte della trama: monocromie primarie o bianche, tagli di Fontana e concrezioni di Burri alle pareti, le sedie Wassily di Breuer che giocano per geometrie simmetriche, finestroni stile Bauhaus. La casa, insomma, di una qualunque famiglia industriale altoborghese di quelle vissute dal dopoguerra a oggi: il testo è stato attualizzato, ergo, alla perfezione. E poi entrano gli sposini, Carolina e Paolino, lei in vestaglia e lui in slip, e si aggirano tra gli arredi scambiandosi effusioni varie ed eventuali mentre l’orchestra suona l’ouverture. Dopodiché arrivano, uno ad uno, gli altri personaggi della tipica comicità settecentesca qui rivisitati e resi contemporanei: Geronimo, il padre di Carolina, ricco mercante avaro e non particolarmente intelligente; Elisetta, la sorella maggiore di Carolina, bisbetica e arrivista; il conte Robinson, ricco e baldanzoso; e infine Fidalma, la sorella di Geronimo, una sfarzosa vedova di mezz’età ansiosa di sentirsi ancora giovane. Tutti sono all’oscuro del fatto che i due protagonisti si sono sposati di nascosto. La trama si sviluppa secondo la logica del dramma giocoso barocco, e dunque tutto gravita attorno all’equivoco inteso come vero e proprio stile di esistenza involuto, ma necessario affinché la situazione si risolva. Due atti di risate post-mozartiane e pre-rossiniane: Paolino vuole ingraziarsi Geronimo, che vuole sistemare entrambe le figlie, e presenta Robinson ad Elisetta, ma il conte s’invaghisce invece di Carolina. Nel frattempo, Fidalma, che conta di risposarsi, s’infatua di Paolino. Geronimo accetta di dare in sposa Elisetta a Robinson, e Paolino disperato chiede aiuto a Fidalma, che però interpreta il discorso del ragazzo come una dichiarazione d’amore e gli si getta tra le braccia. I due vengono scoperti da Carolina, che a questo punto non si fida neanche di Paolino, ma lui le spiega cos’è accaduto e, sempre per disperazione, le propone di fuggire. Intanto Robinson maltratta Elisetta, che però è sinceramente interessata a lui, e Fidalma, gelosa di Carolina, tenta di farla rinchiudere in collegio tramite Geronimo. E tutto va avanti ancora per misfatti, fino a un lieto fine che controbilancia i cataclismi precedenti.
La trama, di per sé, oggi non può sconvolgerci più di tanto, poiché la televisione ci ha in qualche modo abituati a questo tipo di intreccio. Siamo troppo diversi dagli uomini e dalle donne di due secoli fa, che con The Clandestine Marriage di George Colman e David Garrick potevano divertirsi. Va considerato, comunque, che si tratta di un’opera che ha avuto successo sin dall’inizio: addirittura, subito dopo la prima del 1792 al Burgtheater di Vienna, pare che l’imperatore Leopoldo II chiese di riprenderla da capo per vederla una seconda volta per intero. Oggi, per apprezzare i giocosi malintesi de Il matrimonio segreto, serve che qualcuno li riformuli con audacia e volontà narrativa. E questo, per fortuna, è successo; ma d’altronde in questo caso vale l’equivalenza per la quale un nome è anche una garanzia: Pier Luigi Pizzi, grande artista ormai novantenne, stupisce il pubblico non solo per la sua impeccabile regia – che dona al libretto di Giovanni Bertati un respiro nuovo, serio e a tratti sbarazzino – ma anche per le scene di cui sopra e per i costumi, che lasciano emergere la caratterizzazione dei personaggi in maniera ineccepibile. Il cast, poi, si è mosso con una maestria davvero perfetta: le voci, per quanto inappuntabili, non erano tutto, perché un ampio margine della resa scenica si basava sulla recitazione, e questo è sempre un plusvalore quando ci si relaziona con dei cantanti. Al sestetto va innanzitutto il grande merito di sapersi amalgamare perfettamente nonostante le differenze tra i timbri. Sublime la parte femminile: Carolina Lippo (Carolina) si rivela agilissima, Monica Bacelli (Fidalma) brilla per una vivacità e una eloquenza rare, Eleonora Bellocci (Elisetta) sorprende per il virtuosismo con cui rende le lagne del suo personaggio. Lodevole poi anche il coté maschile: Alasdair Kent (Paolino), Markus Werba (Robinson) e Marco Filippo Romano (Geronimo) gestiscono i ruoli con una destrezza straordinaria. Una preziosa scoperta, poi, Nikolas Nägele, che ha diretto l’orchestra senza mai intralciare il canto di nessuno, ma accompagnando anzi le voci quasi con modestia.
Tutto concorre, pertanto, a una riuscita fenomenale di un’opera che merita di essere conosciuta e riproposta. Complimentarsi con gli artefici non basta.
Davide Maria Azzarello