Il criminale, il matto e l’anarchico: “Il Maestro più grande del mondo” al Napoli Teatro Festival
Mirko Di Martino mette in scena una storia vera al Teatro Galleria Toledo per il Napoli Teatro Festival il 25 giugno.
Uno spettacolo di teatro civile che parla di sanità, TSO e dignità della persona, dell’essere umano. Dignità che troppo spesso perdiamo per abuso di potere e menefreghismo, per quell’empatia che dovrebbe essere propria di ognuno di noi e che invece chissà perché, la dimentichiamo lungo la strada che ci porta all’età adulta, lasciando andare quel bambino che è dentro ognuno di noi e che il maestro Franco, l’uomo più alto del mondo conosceva bene, insegnando nelle scuole. Il regista ci racconta i quattro giorni di vita non vita di un uomo costretto a restare immobile nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo Della Lucania sottoposto al TSO. È la cronaca delle ultime ore di vita di Franco Mastrogiovanni, un maestro elementare, un anarchico, un matto. Una storia che poteva essere evitata, se solo non fossimo sempre così distratti e incuranti del prossimo nostro. Fa rabbia, tristezza e indignazione, questa strana parola, questo sentimento obsoleto al quale non siamo più abituati. Onore e merito al regista e all’attore Orazio Cerino per averci mostrato cosa ancora accade in questa Italia sempre più alla deriva dove le intenzioni talvolta sono buone se soltanto non restassero tali. Quello che rende tutto ancora più drammatico sono i sorrisi che strappano i personaggi interpretati di volta in volta da Orazio, le situazioni surreali e le parole delle forze armate che fermano il maestro più alto del mondo, centonovantatre centimetri di bontà, per eccesso di velocità, e quando lo fermi uno, così se non con la forza, gli infermieri che parlano tra loro in ospedale e gli abitanti del paese che si raccontano e ci raccontano. Il sorriso non fa che accentuare la sofferenza di quest’uomo, il dramma che si sta consumando sotto gli occhi di persone che avrebbero potuto fare qualcosa, sciogliere nodi, piccoli gesti così grandi nella loro banalità. Sono sorrisi amari come piccole ferite.
Sulla scena spoglia, essenziale, nuda non c’è mai il protagonista, questo anarchico costretto ad andare a insegnare fuori, perché nel piccolo paese nessuno dimentica e tutti conoscono tutto, questo gigante amato e voluto bene da tutti. Eppure è presente, descritto e raccontato da tutti i personaggi che Orazio Cerino mette in scena con una grande prova, senza trucchi o maschere e scorciatoie facili, solo con la voce, il corpo e l’accento. Uno e centomila, l’attore costruisce così una vicenda di cronaca, cesellando pezzi e incastrandoli tra loro, fino a formare un quadro della situazione che diventa claustrofobico, ingombrante fastidioso come la scenografia – che durante tutto lo spettacolo viene montata e costruita dall’attore stesso – merito degli allievi di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Napoli: una gabbia, dei paletti, un recinto fatto di convenzioni sociali e piccoli pettegolezzi di paese. Ci troviamo davanti a un attore, un artista che intaglia e scava e sovrappone strati e colori e materiali diversi per restituirci un immagine, quella di Franco che difficilmente potremmo dimenticare, perché lo fa stimolando la nostra curiosità, stuzzicando la nostra immaginazione, rendendoci partecipi e ragazzi di bottega di questo capolavoro che sta andando a completare.
E allora voglio ricordarlo così questo gigante buono mentre nuota e canta e sorride, danza alla vita: il mite, l’anarchico e il criminale. Non voglio gabbie, non voglio recinzioni ma solo verità scomode. Voglio ballare sulla spiaggia bagnato, intonare nella mia maniera stonata versi anarchici e, nella mia ora di libertà, niente nodi e trattamenti sanitari obbligatori che la mia testa già non funziona di suo, non c’è bisogno che vi ci mettiate pure voi.
Antonio Conte