FAME MIA – Un’abbuffata di vita al Teatro Leonardo di Milano
“L’ironia è una dichiarazione di dignità. È l’affermazione della superiorità dell’essere umano su quello che gli capita”. Sono parole di Romain Gary. In “Fame mia”, in scena al Teatro Leonardo di Milano, non ci sono, eppure Annagaia Marchioro, anima e corpo di questo spettacolo – di cui è autrice, interprete e personaggio – sembra mossa da questa lezione. L’ironia è il mezzo più efficace per rileggere ogni aspetto della quotidianità, anche il più semplice, e offrirgli una luce capace di renderlo diverso da tutti gli altri. Così anche l’allegra baraonda di un pranzo della domenica in famiglia – veneta, nel caso di specie – può farsi efficace argomento di racconto, dando agio a una comicità mai calante cui bastano elementi semplici per produrre risate convinte, velate come la vita del dolore raccontato con grazia. Efficacia dovuta anche al talento dell’interprete che, pur sola sul palcoscenico, abita lo spazio della scena fino al punto di riempirlo, persino dando l’impressione di moltiplicarsi, muovendosi agilmente tra dialetti e cadenze.
Una girandola di voci e di moti nello spazio e nella memoria, per passare al setaccio la propria esistenza. La suora pugliese dell’infanzia, il viaggio a New York e la scoperta della danza, la proverbiale maestra di balletto russo che trasforma il sogno impossibile di una bimba goffa in “un full metal jacket di stampo chechoviano”, l’amica napoletana bella e invidiata. Una corsa attraverso un vissuto che ha un unico, necessario, filo conduttore, concretizzata mentre viene raccontata: la fame. Una certezza, costante, solida come la scena di tavola imbandita che Maria Spazzi costruisce per avvolgere il racconto che a “Biografia della fame” di Amelie Nothomb deve solo lo spunto, e molto invece alle mani, oltre che di Marchioro, di Gabriele Scotti. Ciò che appare certo è però solo apparente: la scena si disgrega insieme all’esistenza della protagonista, mentre scivola da una fame senza posa al rifiuto di sé.
Anche la fame, così, muta forma, per diventare “fame di una catastrofe”, da autoinfliggersi, per separare una volta per sempre corpo e volontà, fino all’orlo dell’autodistruzione, allo scontro tra corpo e volontà.
FAME MIA si dimostra un lavoro capace di conciliare registri e toni, tra comico e drammatico, che Annagaia Marchioro dà prova di saper maneggiare con grande efficacia e che la regia di Serena Sinigaglia inserisce in un’architettura evocativa di luci .
La “quasi autobiografia” tracciata dall’attrice veneta non può che chiudere il cerchio seguendo il proprio filo rosso, scoprendo una nuova fame che la spinge al luogo del proprio destino: il teatro. L’evocazione di Dario Fo, ne La fame di Arlecchino, tocca l’apice espressivo di un crescendo ben riuscito che non è conclusione, ma un nuovo inizio. Nuova fame, stavolta capace di creare anziché di distruggere. Fame di esperienze, di vita, di voglia di resistere.“Piantata come un chiodo, ma qua”.
Chiara Palumbo