“Con tanto amore, Mario”: Tutta la disperata dolcezza di una formidabile Paola Tintinelli

“Mario, dicevi adesso io vado / ad aprire l’ultima porta / Mario, dicevi adesso io vado via / forse per l’ultima volta / dicevi adesso io vado, io vado / a dissolvermi in cometa, / quanto basta per non sentire più / il ritmo strano della vita […] / Mario, non ti resta che ascoltare / l’eco che hanno messo nel finale” Dal testo della canzone “Mario” di Enzo Jannacci
Diciamolo subito: per riuscire a raccontare questo “spettacolo muto in bianco e nero”, come lo definisce la stessa attrice-autrice-regista-incarnazione Paola Tintinelli, e ad avvicinarne anche da lontano la potenza espressiva e poetica, sarebbe necessario un testo senza parole. Ah, se solo fosse possibile…
Il senso di inadeguatezza, che inevitabilmente si prova essendo invece costretti a utilizzare dei banali caratteri scuri su fondo bianco, è pari forse soltanto al sentimento di disperata, inerme, estraneità che il suo protagonista, Mario, prova davanti al mondo e alle ineluttabili perturbazioni che la vita, esterna e interiore, gli riserva. Anzi, gli annuncia da un altoparlante, unica vera intrusione sonora nello spettacolo insieme alla musica di un vecchio grammofono (su cui gira, non a caso, il disco con le musiche di un film, Arancia Meccanica, i cui protagonisti vivono in una società particolarmente inquietante e violenta).
Mario è un postino, in realtà un ex postino come Paola, e come racconta lei stessa Paola rappresenta anche un omaggio ai suoi colleghi e alla sua “vita precedente”. PT. Come Poste e Telegrafi. Ma anche come Paola Tintinelli. E, soprattutto, come Perle di Teatro. È ciò che Paola-Mario distribuisce a piene mani, senza parlare, per un’ora e più. Ma tu, spettatore, vorresti poterla vedere e rivedere per ore, per mille volte ancora, per tutta l’eternità del per sempre da cui Mario sembra provenire e l’infinito futuro del mai più che Mario sembra desiderare per sé stesso. Il suo armadietto di metallo è un non luogo da cui, come dalla cuccia di Snoopy o dal gonnellino di Eta Beta, prendono forma, continuamente e quasi senza limiti, gli oggetti che accompagnano la sua vita. Ma può essere anche un luogo di nascita, quasi come un grande utero, e alla fine di prigionia e forse di morte. L’armadietto è, forse, tutto ciò che c’è. Mario-Paola tenta con lui un disperato accoppiamento. Mario incarna le parole del grande poeta Thomas S. Eliot, che raffigurava questa vita inesistente così: “Nascita, e copula e morte, / tutto qui, tutto qui, tutto qui, / nascita, e copula e morte. / E se tiri le somme è tutto qui”.
Solo disperazione, dunque? No, Mario-Paola trasmette poesia con ogni suo gesto, con ogni minima espressione. Se ti fermi a guardarla, così, spogliata di ogni sovrastruttura formale esistenziale, ti sembra di vedere il Teatro, ti pare di riuscire a catturarne l’essenza stessa in un unico scatto. Chi assiste non può che lasciarsi condurre nel mare, a volte calmo a volte burrascoso, della sua solitudine. E qualche volta anche ridere, non di lui ma “per lui”, perché a un personaggio così gli vuoi bene, gli vuoi bene davvero. Mario essere poetico. Mario e la sua biciclettina per consegnare la posta, Mario e il suo nano da giardino, la cassetta delle lettere, lo zerbino di casa, Mario e i suoi timbri, la sua schiscetta, il grammofono, panettoncino e spumantino per festeggiare, rigorosamente da solo. La sua vita, come la nostra, sembra essere tanto piena di oggetti quanto vuota di relazioni vere con gli altri. Mario si tuffa nella routine, e quando vede che sta per annegarci dentro improvvisamente scatta, esplode, perde il controllo, riemerge. Mario si spoglia. Mario si sopravvive.
Mario, finalmente, si dissolve in cometa.
Andato in scena al Teatro Linguaggicreativi il 1 dicembre.
A.B.