CITA A CIEGAS – LA PANCHINA DEI DESTINI INCROCIATI
In un piccolo spazio temporale, avendo davanti la persona giusta, c’è una vita da raccontare, ricordi piacevoli, dolori recenti, pensieri. Chi lo sa poi perché questo accade e perché in quel preciso momento e non prima né dopo, e poi perché con quella persona e non altri, forse perché con un quasi sconosciuto è più facile, è come i compagni di viaggio di un treno nella notte. Magari non si rivedranno mai più e mai sapranno dell’evolversi della vita né le altrui verità. Stanno lì ad ascoltare. Qualche volta annuiscono, a volte sorridono, capiscono o fanno finta di capire, che importa. Intanto il tempo passa e il viaggio arriva alla fine…poi ognuno per la sua strada, ogni fiume al suo mare. Giochi della vita, incastri del destino. Geometrie.
C’è un uomo (Gioele Dix) seduto su una panchina, in una piazza di Buenos Aires, uno scrittore cieco che ricorda Borges e un groviglio di incontri in un rimando nemmeno tanto velato della Biblioteca di Babele e c’è un bancario in crisi di mezza età (Elia Schilton), innamorato di una giovane e sfuggente scultrice (Roberta Lanave). Poi ci si sposta nello studio di una psicoterapeuta (Sara Bertelà) in dialogo con una paziente infelice (Laura Marinoni). Tutte le storie s’incontrano, come cima di nave che attracca alla riva, i fili si uniscono, le strade si incrociano, convergono, i ricordi si sommano, si mischiano, si legano fino a che il destino possa compiersi in un finale tragico che non è dramma ma quasi farsa in un tempo che passa a ritorna per concludersi in un incontro sognato da anni e non realizzato se non nel pensiero costante e irremovibile di quegli occhi che per un attimo, un attimo solo, hanno emesso una luce d’amore dai gradini di una scala mobile in una metropolitana parigina.
Il bel testo di Mario Diament nell’adattamento e regia di Andrée Ruth Shammah in scena al Teatro della Pergola di Firenze è un bell’esempio di teatro, dove alla bravura degli attori si unisce anche l’incredibile scenografia di Gian Maurizio Fercioni con il muro che fa da sfondo alla panchina che all’improvviso si apre per farsi camera psicanalitica. La musica discreta, quasi pudica accompagna gli spettatori quando per l’abbassarsi della voce e per l’acustica carente la battuta si perde. E li consola facendosi perdonare in uno struggente volteggio di tango.
Francesco De Masi
Foto Luca Del Pia