“ARTE”. UNA METAFORA DI YASMINA REZA PER SCOMPORRE L’INDIVIDUO
Tre amici, un quadro. “Arte”, di Yasmina Reza, in scena al Teatro Fontana di Milano, potrebbe sembrare tutto qui. Negli scambi di battute intorno all’opera contemporanea che uno dei tre ha acquistato, che il secondo disprezza e il terzo non capisce. Non è semplice spiegare cosa si dipani sulla scena, perché più che il contenuto, che si potrebbe sintetizzare così, è il pensiero a sostenere un testo denso soprattutto di letture, che rispetta le aspettative di chi conosce, ad esempio, Carnage, che Polanski ha portato al cinema e che il teatro conosce come Il dio del massacro.
Laddove là l’espediente erano due coppie chiamate a confrontarsi dopo che i figli si erano picchiati, qui il confronto nasce da un quadro bianco, che genera discussioni a catena che esplodono esorbitando il minuscolo avvenimento contingente, travolgendo a valanga il rapporto tra i tre, il loro con chi li circonda, la propria immagine di sé. Quello che avviene sulla scena è, infatti, una scomposizione dell’individuo, in cui l’arte si fa metafora dell’immagine di sé. “Che cosa vedi, dentro a un quadro bianco?” Uno vede un’opera d’arte straordinaria, tanto da investire una cifra spropositata, un altro colori che non è importante se esistano o meno, il terzo soltanto “una merda bianca”. È questo a dare origine a una lite assolutamente folle e perfettamente reale, in cui Reza offre ai suoi personaggi il linguaggio esatto per dare voce a quei pensieri articolati e profondamente veri che solitamente si nascondono e che solo in certi drammatici litigi trovano espressione. Un’architettura estremamente celebrale che mostra la corda della complessità del reale come solo la scena e il vedersi da fuori concede, mentre la quotidianità li seppellisce e lascia scorrere inavvertiti. La lettura superficiale di una commedia divertente che si regge sull’umorismo intellettuale e su lunghi silenzi viene così seppellita dalla vivisezione dell’umano, in cui la sapiente scrittura di Reza entra come un bisturi svelandone le più intime verità. L’esigenza di nutrire l’ego che regge ogni amicizia e ogni legame, di essere recepiti come speciali da chi ci è vicino e definirsi in base al suo sguardo, purché si possa offrire ad esso una spiegazione chiara, lineare, tagliata con l’accetta: “Cosa sono gli amici al di fuori di me, della speranza che ho riposto in loro?”
Nell’atmosfera rarefatta della pièce, che mette in scena un conflitto che appare estremo ma è profondamente autentico, a mostrarsi in tutta evidenza, sotto l’adesione, accolta o rifiutata, ai valori dell’arte e quindi della vita, è però soprattutto il contrario: l’esigenza ineludibile di fare corrispondere l’altro all’immagine che ci si è costruiti di lui. Il pacere, l’alternativo, il bonaccione. L’uscita dai ranghi è dirompente, ma più ancora inconcepibile. Nella scenografia minimale a cui si appoggia la regia di Alba Maria Porto a cui fanno però da prologo un superfluo intermezzo musicale e da epilogo un didascalico video, la recitazione artefatta di si eleva in picchi di efficacia e pathos – in particolare dell’interprete del mediatore Ivan, Mauro Bernardi – altrimenti trattenuti, da Christian La Rosa ed Elio D’Alessandro. E, benché Reza faccia dire ai suoi personaggi che le questioni più importanti sono da affrontarsi con l’emozione piuttosto che con il ragionamento, la forza di questo testo affascinante e ricchissimo sta proprio nell’elegia del pensiero, che – dove l’emotività è resa, è ritorno nei ranghi del conosciuto e di ciò che rassicura – permette all’essere umano di affrontare il nemico peggiore, se stesso. E superarlo.
Chiara Palumbo