Al Teatro Filodrammatici di Milano arriva “La donna più grassa del mondo”
Una prima milanese approda al Teatro Filodrammatici di Milano: è “La donna più grassa del mondo”, uno spettacolo del giovane e talentuoso drammaturgo Emanuele Aldrovandi.
La scena è già attiva all’entrata del pubblico in sala, la scena aperta mostra il salotto di una casa e, su una poltrona, una donna, lei, proprio lei, la donna del titolo, con a fianco un televisore acceso sempre sintonizzato su documentari di animali. La donna non può muoversi, il suo giaciglio è il divano, l’unico arredo in grado di contenere il suo peso di 460 kg. Le sue giornate trascorrono tra un pasto e l’altro, preparato o comprato dal marito, che ci tiene a trattarla come una regina e a esaudire ogni suo desiderio, come dimostrazione del suo amore. I pasti super calorici della donna hanno lo scopo di farle guadagnare il guinness dei primati, tenendo sempre e comunque monitorata la concorrenza. I proventi per una vita come la sua arrivano dai post su internet e dai video che la donna fa a se stessa e che diffonde in rete, con un grande riscontro di pubblico e di interesse, o almeno così pare.
Ma un giorno, nel palazzo in cui la coppia abita, l’inquilino del piano di sotto nota una crepa sul soffitto, che sembra trovarsi proprio in corrispondenza del divano su cui poggiano i kg della donna. E da quel momento inizia la battaglia, quella che mette in discussione ogni cosa, pur non negandola, una battaglia verbale tra il marito e l’inquilino del piano di sotto, in cui, con grande arguzia di dialoghi, il marito riesce sempre a uscirne vincitore, nonostante l’assurdità della situazione. Una storia che tocca punti dolenti della società, come l’apparenza, il giudizio altrui, i sensi di colpa, l’isolamento, la solitudine e il mancato ascolto. La donna, con la sua grassezza, si ritiene emancipata e libera dalla dittatura dell’estetica, non considerando affatto le conseguenze che questo possa avere su se stessa e sugli altri. La sua ribellione a una società che osanna la buona forma fisica si è fatta strada grazie all’ingurgitare quantità inverosimili di cibo spazzatura, annientando qualsiasi senso di colpa e pensando così di essere libera nella piena accettazione di sé, senza riuscire a vedere invece la prigione che ha costruito intorno alla sua figura incapace di alzarsi, escludendo il mondo esterno. Suo marito è l’unico appiglio che ha con il mondo reale, ma cosa succederebbe se un giorno non tornasse più a casa? Cosa succederebbe se la crepa sul soffitto dell’inquilino del piano di sotto si allargasse sempre di più col passare del tempo e mettesse a rischio la stabilità dell’edificio? Quando è “troppo tardi”? Che cos’è la felicità?
Il testo di Emanuele Aldrovandi mostra chiaramente, spingendosi fino all’estremo, le conseguenze di alcuni principi che all’apparenza sembrano inattaccabili, come il rispetto delle decisioni altrui, l’accettazione di se stessi, la ricerca della felicità. Dall’altro lato questi principi vengono demoliti, pezzo dopo pezzo, in modo altrettanto inattaccabile, provocando un’inversione delle parti e dei punti di vista.
Le scene di Alice Benazzi, che cura anche i costumi, racchiudono l’essenza di una casa/prigione in cui l’unico svago, al di là del cibo, sono i documentari. E chi più degli animali potrebbe insegnarci qualcosa? La regista Angela Ruozzi ha saputo valorizzare il testo e guidare i tre notevoli attori in scena, Marco Maccieri (il marito), Alice Giroldini (la moglie) e Luca Cattani (il vicino di casa) nell’interpretazione dei loro personaggi nelle svariate e sfaccettate sfumature delle loro personalità. Vittime e carnefici si danno il cambio, fino alla fine, per arrivare a una conclusione a sorpresa che vuole sensibilizzare ulteriormente sul mondo di oggi, il consumismo, lo spreco, l’ecologia.
In scena al Teatro Filodrammatici di Milano fino al 9 febbraio.
Roberta Usardi