Gli “Antichi Maestri” di Lombardi-Tiezzi: un prezioso spettacolo sul tema del vedere
Raffinato lavoro sulla visione e sulla visibilità, nonché gioiello di precisione stilistica, è il riadattamento teatrale di “Antichi Maestri”, ad opera della storica compagnia Lombardi-Tiezzi, travolto da un felice successo di pubblico, in occasione della sua permanenza presso il Teatro Vascello, dal 23 al 28 novembre.
Come si evince dalle note di regia, lo spettacolo è anche una dedica accorata a Franco Quadri, che anni fa aveva suggerito a Tiezzi il romanzo di Bernhard, oggi approdato in scena, grazie alla traduzione di Anna Ruchat e il supporto drammaturgico di Fabrizio Sinisi. Ultimo di una “Trilogia delle arti”, preceduto da “Il soccombente” sul tema musicale (1983) e da “A colpi d’ascia” (1984) incentrato sull’arte drammatica, “Antichi Maestri”(1985) considera il rovente fallimento della cultura e dell’uomo dinnanzi al mondo, servendosi di un feroce divertissement. La puntale scenografia di Gregorio Zurla (suoi anche i costumi), è una grande scatola geometrica costruita da segmenti di luci al neon che restituisce all’occhio dello spettatore la “Sala Paris Bordone” del Kunsthistorisches Museum di Vienna. In questa cornice, il cavilloso musicologo e critico d’arte Reger (mirabile Sandro Lombardi in presenza scenica e ricerca del ventaglio vocale), si siede sulla panca e contempla la famosa tela del Tintoretto: “Il ritratto di un uomo dalla barba bianca” (1564). È un rito immancabile che compie ogni due giorni da trent’anni. Ogni tanto, va a fargli visita uno scrittore più giovane (pienamente convincente Martino D’Amico) che, sedutogli accanto con il suo fedele taccuino, lo segue ammirato. Il sorvegliante Irrsigler (un calamitante Alessandro Burzotta nella sua resa parodistica) che fa pensare più a un secondino delle carceri che ad un custode di opere d’arte, osserva entrambi, senza mai proferire parola, ma traducendo con l’abile danza dei suoi gesti il dialogo dei due eleganti visitatori. Incuriosiscono questi uomini, posti in una fila beckettiana e rivolti di spalle allo spettatore, intenti a scrutare nell’altro il tormento che lo assale. Un congeniale triangolo narrativo, la cui forza propulsiva si dipana dal quadro, gravitando attorno allo sguardo di ciascun personaggio che è puntualmente un affondo, uno scavo, nell’intricata materia umana. Il museo diventa una seconda casa per l’anziano Reger; è qui, infatti, che ha conosciuto per la prima volta la sua amatissima moglie, “l’unico essere umano che, tra tutti gli esseri umani, abbia amato più intensamente”– confesserà al suo amico scrittore, rapita anche lei dalla visione estatica del quadro del Tintoretto. Ma in seguito alla morte della donna, Reger si riveste di una corazza di parole con cui seduce, aggredisce e si difende dall’esterno, lasciandosi andare a una valanga di giudizi impietosi a cui si alternano i valzer di John Strauss, realizzate da Schonberg: “Il genio e questo Paese non sono compatibili. In questo Paese, per essere presi sul serio, bisogna appartenere alla mediocrità, alla sciatteria e ipocrisia provinciali, bisogna avere un cervello fatto su misura per un piccolo Stato”. Dürer ha inchiodato la natura alla parete, al Kunsthistorisches Museum non c’è un Goya o un El Greco. Quanto poi agli storici dell’arte, sono dei tromboni che rintronano le orecchie della gente con le loro scemenze, veri devastatori dell’arte. Non risparmia nemmeno Vienna, temuta e aborrita per le sue scandalose toilette, e il luna park del Prater è a suo avviso un disgustoso assembramento di esistenze criminali. Beethoven è insopportabile, Mahler è estenuante, San Pietro a Roma è una costruzione abborracciata e di pessimo gusto. Michelangelo, Giotto, Velàzquez sono solo servitori di Chiese e Stato succedutisi nel tempo. Gli unici autori che legge volentieri sono Montaigne, Pascal e Voltaire e la commedia che più gradisce è ‘La brocca rotta’ di Kleist, rappresentata spesso al Burg Theatre, secondo lui, il miglior teatro di Vienna. Odia passeggiare, detesta il sabato, la domenica è un giorno tremendo, il lunedì, invece, gli reca sollievo. Guardare la gente è la sua principale occupazione. Ha avuto un’infanzia infernale, non amava i genitori perché per trentacinque anni lo hanno represso, la sorella di diciannove anni è morta all’improvviso, motivo che accresce la sua totale disapprovazione per le feste di compleanno. La moglie è stata l’unica anima a lui affine, mentre ora è costretto a stare da solo.
È su un continuo e trascinante moto verticale che la regia di Tiezzi forgia una macchina ottica della scena, capace di scandagliare diversi nuclei tematici: i limiti della bellezza e della perfezione, la ricerca dell’errore manifesto nell’opera d’arte che permette di umanizzarla, la nevrosi della modernità e l’angoscia della solitudine provata dal vecchio musicologo. Per Reger andare al museo vuol dire rinnovare la promessa di ritrovare la moglie in ciò che resta, nel luogo caro a entrambi, e pensarla così, lontano dal crogiolo della volgarità che dilaga al di fuori. Nell’amore per la donna si racchiude un inestirpabile desiderio di bellezza. “Non sono gli Spiriti Magni e neppure gli Antichi maestri a tenerci in vita” – dirà in conclusione Reger – “ma solo quell’unico essere umano che abbiamo amato”. Sul finale, la voce di Nina Hagen accompagna il gioco ballerino di una luce livida che pare accarezzare la tela del Tintoretto, pian piano affievolendosi, come a malincuore si spegne chi è costretto a lasciar andare e, nonostante tutto, deve continuare a vivere.
Diana Morea