La performance di Roberto Latini sul mito dell’arte
All’inizio degli anni Trenta, Luigi Pirandello
concepì e scrisse un dramma intitolato I giganti della montagna.
Il primo atto fu pubblicato su rivista già nel dicembre del ’31, mentre il
secondo arrivò nel novembre del ’34. Il terzo atto venne solo schematicamente
impostato dal figlio Stefano su indicazione del padre ammalato di polmonite. Nel
’37, sei mesi dopo la morte dell’autore, I giganti della montagna
vennero rappresentati per la prima volta a Firenze, nel Giardino di Boboli.
Un’opera enigmatica, anche (e soprattutto, forse) per via dell’incompletezza
che la caratterizza: nonostante l’intervento di Stefano, infatti, la stessa è
divenuta nota nella sua forma monca, priva di un finale vero e proprio. La
trama, di per sé, non è difficile, e anzi riprende un dramma ben più noto del
Pirandello che tutti almeno una volta hanno sentito nominare: I giganti
della montagna, infatti, per via di quella logica del teatro nel teatro
possono essere facilmente avvicinati ai Sei personaggi in cerca d’autore.
La vicenda si sviluppa attorno a Ilse, la contessa a capo di una compagnia che,
non ottenendo mai il favore dei teatri, sceglie di recarsi con i suoi attori
alla Villa degli Scalognati. Lì, Ilse incontra Cotrone, un mago che tenterà di
convincerla a rimanere in quel luogo, agli orli della vita, dicendole
che tutto l’infinito che è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a
questa villa. Ma Ilse non è convinta. Cotrone le propone allora di portare
un suo spettacolo ai giganti della montagna, che però non gradiranno molto la
messinscena…
Un’opera un po’ sfingea, ermetica, ricolma di simboli difficili da interpretare,
dove una certa sarcastica metafisica emerge anche con i nomi dei personaggi:
Diamante, Cromo, Sacerdote e Spizzi sono alcuni degli attori di Ilse; Quaquéo,
Duccio Doccia e la Sgricia sono invece alcuni degli scalognati di Cotroneo.
Da venerdì 25 a domenica 27 ottobre, per un totale di tre repliche, tutto questo teatro nel teatro (nel teatro nel teatro…) è giunto a Torino. La regia vantava una firma sicuramente autorevole, quella di Roberto Latini, che ha scelto di proporre una reinterpretazione molto audace dell’opera originale. Innanzitutto, non c’è un vero cast: sul palco c’è essenzialmente lui, talvolta accompagnato da qualche presenza mascherata. Sin da subito, comunque, lo spettatore percepisce che l’intento di Latini non è quello di riprodurre una versione possibile di un testo complesso; più che altro quella del regista sembra una splendida lectio magistralis sul mito dell’arte. Ma d’altronde, se si legge il comunicato stampa, si scopre che l’obiettivo era proprio questo: “dopo le bellissime messe in scena che grandi registi e attori del nostro teatro recente e contemporaneo ci hanno già regalato“, spiega Latini stesso, “penso ci sia l’occasione di non resistere ad altre tentazioni. Voglio muovere dalle parole di Pirandello verso un limite che non conosco. Portarle al di fuori di tempo e spazio, come indicato nella prima didascalia, toglierle ai personaggi e alle loro sfumature, ai caratteri, ai meccanismi dialogici, sperando possano portarmi ad altro, oltre tutto quello che può sembrare“. Una performance, quindi, più che un vero e proprio spettacolo teatrale. Un evento recitato ma anche mimato, sussurrato e poi scolpito, dove le parole non hanno più importanza delle scene, delle luci, dei suoni o degli oggetti perché in realtà tutto si inscrive nella volontà, piuttosto inedita, di confezionare un racconto di tutto ciò che può essere l’arte se vista attraverso la lente del pirandellismo. E quindi l’attore arriva su un palco dove della scena originale indicata dal drammaturgo girgentino sono rimasti solo un eterno crepuscolo e quel breve spiazzo erboso che stava davanti alla Scalogna. Latini recita alcune parti del testo cambiando tono a seconda del personaggio che sta incarnando, vaga tra le spighe plasmando lo spazio attorno a sé, si confronta con delle figure vestite da monatti secenteschi. Poi irrompono il fumo e le bolle, vorticando al ritmo delle ancestrali musiche di Gianluca Misiti. Ogni tanto un lampadario, una sedia, una panchina, dei veli, alcuni squarci di testo proiettati con i video di Barbara Weigel. Ritorna Latini, illuminato dai colori primari di Max Mugnai, e reitera l’esibizione, in un moto discensionale che porta ad una conclusione esteticamente geniale, dove l’attore saluta il mondo da uno strano trampolino a strapiombo sul pubblico.
Volendo essere oggettivi, l’esperimento è indubbiamente accattivante. La falla nel piano? Può funzionare solo con chi già conosce bene il testo o con chi comunque si è già imbattuto in una resa teatrale più tradizionale dello stesso. E infatti, al Teatro Astra, la sera del 25 gli applausi sono scrosciati per quasi cinque minuti, però non serviva l’occhio del falco per accorgersi che si trattava essenzialmente di addetti ai lavori, esperti, intenditori. Un’occasione, insomma, tanto interessante quanto elitaria, riuscita solo se la si osserva dalla prospettiva del dotto.
Davide Maria Azzarello
Foto di Simone Cecchetti