TRT 2023: dirige Mildenberger
Torino. È il 13 febbraio, un lunedì freddo ma non come dovrebbe. Già sotto i portici c’è una gran folla, ma una volta dentro ci si accorge che gli spalti sono stracolmi. Ricominciano i concerti del Teatro Regio: il primo appuntamento dell’anno è un omaggio a Boulanger, Paganini e Musorgskij. Francia, Italia, Russia. Dirige l’orchestra il giovane Felix Mildenberger, che dal biennio 2021/22 dirige la Filarmonica TRT, fondata ormai vent’anni fa. Sui programmi di sala, al suo nome si associano aggettivi come elegante, versatile, espressivo. Con lui sul palco, il primo violino Giuseppe Gibboni: figlio d’arte (il suo primo maestro è stato il padre Daniele) e prodigioso ventiduenne (al suo debutto era presente Sergio Mattarella).
Si parte, come si accennava pocanzi, con un nome sicuramente non fra i più noti: Lili Boulanger. Compositrice, anche lei figlia d’arte, allieva di Vidal e prima vincitrice, nel 1913, del Prix de Rome. Off topic: Maurice Ravel, più anziano di diciotto anni, aveva partecipato cinque volte senza mai vincere. Cagionevole, morirà nel ’18, ma non prima di lasciarci, fra le altre, D’un matin de printemps, che sulla scheda di sala Roberta Pedrotti definisce saggiamente come un delicato bozzetto dalla linea fresca e accattivante, il quale però ci aiuta altresì a comprendere il rapporto dell’artista con l’impressionismo, qui inteso come oscillazione fra serenità e panico, idillio e inquietudine. Strascichi di romanticismo? O forse uno sguardo sul futuro? Mildenberger, peraltro, lascia che il palpito primario della sua resa sia proprio questo: un’impression più complessa. Nonostante la grazia speziata e sgarzolina di cui è intrisa la trama del brano, l’orchestra riesce ad evolverlo. E’ una situazione più profonda: emergono timide, e poi prorompenti, delle note grevi, puntute, aguzze, come di una primavera pesante, dove forse la protagonista non è la rosa che sboccia nella brezza. Ci sono i pollini, l’umidità, gli sbalzi di temperatura, e gli animaletti friniscono con quella veemenza che come sempre dimentichiamo durante l’inverno. E poi Paganini. Lui lo conosciamo: un secolo prima di Boulanger, il famigerato compositore genovese plasmava il suo primo concerto, di cui è interessante ricordare la prima stesura, la quale prevedeva il mi bemolle per l’orchestra e il re maggiore per il violino. Questa scelta stilistica, spiega sempre la Pedrotti, si chiama scordatura, e permette al solista di suonare effettivamente nella stessa tonalità dell’orchestra, ma con una brillantezza, colori e risorse impensabili senza questo espediente. Dopo un impeccabile allegro maestoso, durante il quale già si palesa la potenza savia e misurata del primo violino, solista e porteur; si passa all’adagio, il segmento più lungo, e l’orchestra dimostra di saper pattinare sulla materia. Conclude l’allegro spiritoso: l’ultima scintilla, in teoria, per Gibboni. Ma il ragazzo, galvanizzato dagli applausi (meritatissimi) non ritorna sul palco per un assolo, o magari due, ma ben quattro. Alla terza volta si accendono le luci, ci sarebbe l’intervallo. Venti minuti di ritardo. Infine, Musorgskij, con i Quadri di un’esposizione orchestrati da Ravel. Si tratta della suite più conosciuta, fra le sue: un Modest trentacinquenne voleva musicare le immagini dell’amico Victor Hartman, morto appena un anno prima. La serie di bozzetti appare eterogenea, tuttavia spesso ritorna il filo rosso del fantastico, o quantomeno un certo realismo magico forse ante litteram. All’inizio ricompare il tema della Promenade, ma dopo la quinta volta questo collante svanisce. Segue Lo Gnomo, di violoncelli e contrabbassi: fiabesco e grave, suggestivo come un film muto, espressionista e suprematista. Il Vecchio Castello è invece un andante cantabile e doloroso; in Tuileries alcuni fanciulli si accapigliano dopo aver giocato insieme; e ancora Bydlo (il carro polacco), Il delizioso balletto dei pulcini nei loro gusci. Il fulcro: l’allegretto vivo della Grande Notizia, in cui le chiacchiere di alcune donne al mercato di Limoges degenerano in una lite. Gli ultimi tre brani rappresentano davvero un crescendo luminoso e affascinante: il lirismo pressoché quadrato, brutale, delle Catacombe (si notino i sottotitoli: Sepolcro romano/ Con i morti in una lingua morta) diviene una pace cupa, lamentosa. Torna la metafisica, con Baba Jaga, ovvero La capanna sulle zampe di gallina: la celebre figura mitologica scorrazza con ferocia, la casa a forma di orologio a cucù insegue freneticamente l’ascoltatore. Grandioso, fantasy, e orripilante come tutto ciò che non conosciamo o che abbiamo scordato. Infine, La grande porta nella capitale di Kiev: una cascata splendente di rintocchi di campane che salgono fra i vortici di vento articolati come virgulti. E’ come vedere un concetto astratto farsi concreto: ecco il gong.
Un programma perfetto, equilibrato, soddisfacente: il pubblico interrompe gli applausi attorno al quinto minuto. Il prossimo concerto della Filarmonica sarà il 19 marzo: Jérémie Rhorer con Prokof’ev, Čaikovskij e Mozart. Prosegue anche la lirica: questo sabato c’è la prima dell’Aida di Michele Gamba e William Friedkin.
Davide Maria Azzarello