“Trainspotting”, il trip allucinante di una generazione ancora viva.
“Prendevamo morfina, diacetylmorfina, ciclozina, codeina, temazepam, nitrazepam, fenobarbitale, amobarbitale, propoxyphene, metadone, nalbufina, petedina, pentazocina, buprenorfina, destromoramide, chlormetiazolo. Le strade schiumano di droghe contro il dolore e l’infelicità, noi le prendavamo tutte. Ci saremmo sparati la vitamina C se l’avessero dichiarata illegale.” Mark Renton – Trainspotting
Ca..o!
Devo ammetterlo, e qui confessarlo: sotto-sotto non volevo vederlo, questo “Trainspotting”. Avevo paura. Temevo che lo spirito di un testo così particolare, scivoloso come il pavimento di un bagno pubblico fuori da una discoteca della Glasgow anni ’90, sarebbe stato inevitabilmente “fregato” dalla modalità “Teatro”, se non malamente tagliato come una dose scadente di eroina. Il pericolo più concreto era che ci si volesse scomodamente appoggiare solo sul linguaggio estremo del libro di Irvine Welsh (a proposito: ottima la traduzione di Emanuele Aldrovandi, sempre e comunque una certezza qualunque cosa faccia…), oppure limitarsi a scimmiottare le immagini crude e memorabili del leggendario film di Danny Boyle, oppure ancora peggio trarne una versione “politically correct”, più ammorbidita e pret-a-porter, che richiamasse un pubblico più trasversale, “familiare” e transgenerazionale.
E invece… E invece nella melma di quel bagno sia lo spettacolo sia i suoi protagonisti ci rovistano parecchio, e parecchio bene, in cerca delle supposte verità che una società finto-liberale vorrebbe imporre loro. Anni ’90. Ne siamo proprio sicuri? La regia sfrutta al meglio tutte le potenzialità specifiche e potenti che solo il Teatro può offrire, decidendo di abbassare la scena e gli attori a livello spettatori a costo di perdere qualche fila di poltrone, e di utilizzare elementi scenici semplici ma adoperati in maniera sempre sorprendente ed efficace da attori veramente “sul pezzo” (i bravissimi Michele Di Giacomo, Valentina Cardinali, Riccardo Festa e Marco S. Bellocchio). Sono loro ad accoglierci, anzi ad attenderci già in scena, seduti e parzialmente svestiti, accanto a una consolle da Dj e a un PC che rimanda filmati che possiamo vedere, ma solo da lontano, come sono solo apparentemente lontani quegli anni. Te li aspetteresti più brutti, più sporchi, più “sfatti” = più cattivi. E invece… E invece no, questo Trainspotting teatrale non rifugge solo gli effetti speciali a tutti i costi, ma anche le scelte scontate.
Ovviamente il testo, nella versione di WaJdi Mouavad, è assolutamente rispettato, ma lo “snap of a finger” che fa la differenza è la capacità di trasformarlo in linguaggio teatrale e il merito va condiviso, evidentemente, tra tutti gli eccellenti protagonisti in scena e fuori. Turpiloquio: celo (enorme il lavoro di Aldrovandi nel tradurre il continuo intercalare dei protagonisti). Siringhe: manca. Immagini forti, capaci di rimanere più della storia: celo. Lacci emostatici: manca. Al Bano e Romina (una geniale libertà drammaturgica e musicale): celo. Il tutto “tagliato” da un “senso dell’umorismo” che riesce a farci sorridere anche nei momenti più duri dello spettacolo. A questo punto, “f….lo il politically correct”, in questa recensione come nello spettacolo. Fuori tutta la verità. Alle donne, almeno quelle più empatiche e sensibili, alcune immagini dello spettacolo potrebbero rimanere sullo stomaco per tutta la notte, mentre gli uomini accanto a loro ne godranno come ricci. Quando andrete a vederlo (andateci!) non portate quindi con voi la vecchia zia Carmela, tanto carina e religiosa, se ci tenete alle sue coronarie. Oppure sì, portatela invece, soprattutto nel caso vi abbia nominato loro eredi unici e siate a corto di soldi per comprare la vostra solita dose. E “il pelo nell’uovo”? Spettacolo (e recensione) meriterebbero forse un finale più all’altezza. Non necessariamente un pip…ne morale. Piuttosto qualcosa di meno “secco”, tronco, forse monco. E invece…
Ca…o!
In scena al Teatro Menotti di Milano dal 3 all’8 dicembre.
A.B.