“Sangue e latte” – Note di Eugenio Di Donato
“Sangue e Latte” (El Doctor Sax) è un vortice di fatti e parole, di accadimenti subiti [la morte del figlio, un abuso] e voluti [le dimissioni, lo scrivere], in cui l’uomo Ludovico impara a muoversi. Impara a prendere le distanze, ad accettarli, a tuffarcisi dentro e andare oltre. E lo fa sul piano dei fatti, mette in pratica ciò che è convinto di aver intuito convivendo con la componente di rischio che questa scelta comporta. Il fallimento.
È il racconto di come un uomo, Ludovico, crei uno spazio – un’area di manovra – che gli permette di virare e di diventare qualcosa di diverso da come si è sempre immaginato, che è stato quasi costretto a immaginare, perché sistematicamente suggerito.
Il sangue e il latte, il rosso e il bianco, la rabbia e il pensiero costituiscono il nutrimento, il propellente che portano Ludovico ad attuare risoluzioni che agiscono nel suo quotidiano. Poiché di cambiare il quotidiano qui parliamo. Di una rivoluzione pratica: semplice e possibile. Di azioni che il singolo uomo, la singola donna, possono compiere nelle loro vite.
Non è un caso che l’espressione «sangue e latte» che la madre grida a Ludovico nel momento del suo primo grande viaggio, la prima volta che «lascia casa», indichi un bene comune, la bevanda alchemica, la linfa, che nella lingua di Ludovico significa cresci e diventa uomo. Diventa persona.
Il «diventare» è il perno sui cui ruota l’intero romanzo. È la tensione che lo muove: «raggiungere il pieno sviluppo della persona umana».
Ma torniamo alla rabbia, al rosso, al propellente che lo smuove. Non è cieca, non è reattiva, non è quella di un uomo ferito che, braccato, e privato di ogni spazio vitale, carica a caso la società.
È una rabbia bianca. Ludovico è arrabbiato e lucido. È desiderante, e in quanto tale è determinato, alimenta un sentire preciso. Smettere di essere un oppresso. Smettere di dover essere. Smettere di pensare di avere difronte a sé due sole alternative: «vivere una vita deforme o venire scartati»
“A furia di adattarmi mi ero snaturato. Ero seduto davanti a un banchetto di legno e cercavo di infilare a forza un cubo nella sagoma di un triangolo. Lo spingevo, lo ruotavo, lo guardavo perplesso, riprovavo. Cambiavo buco, lo spingevo, lo ruotavo e riprovavo. Fino a quando, stanco, lo lasciavo cadere e passavo a un’altra figura.
Non riconoscevo i contorni; avevo perso il disegno della mia persona e per quanto mi affannassi non trovavo un posto che mi corrispondesse. Mi ostinavo a occupare posizioni indicatemi da altre persone e disegnate per altre persone, castravo i miei naturali talenti e ne sviluppavo di monchi, come se vi fossero due sole strade possibili, vivere una vita deforme o finire scartati come quel cubo di legno.” (Pag. 49)
Ludovico vuole essere. Ha intenzione di diventare qualcosa d’altro. Vuole crescere. E per farlo si sposta verso una nuova esistenza: Trasloca. Lo fa su due livelli: fisico e metaforico, nel reale e nell’immaginario.
Da subito i due «livelli» sono chiari. Il romanzo si apre con un doppio spostamento. Un’azione subita e un’azione agita. Un trauma e una decisione. Uno spostamento geografico e uno esistenziale.
“Ho lasciato il lavoro di ingegnere, l’invocato contratto a tempo indeterminato. Cinque anni fa è morto nostro figlio. Nato morto recita il referto dell’ospedale. In basso a destra, in grafia leggibile, come richiesto, la firma del padre. La mia. Da sei mesi vivo al mare. Questa notte c’è stato un temporale, il mare è mosso e ancora fangoso.” (Pag. 11)
Il piano fisico e il piano metaforico, la rabbia e il pensiero. Il rosso e il bianco, il sangue e il latte, sostanze e tinte, carne e colori accompagnano e investono Ludovico per l’intero corso del romanzo:
“Sangue e latte. Sangue, grida, contrazioni, sangue. Le garze sterilizzate si ammucchiavano l’una sull’altra, il sangue sgorgava, imbrattava le gambe, i guanti, i camici. Agata spingeva, si contraeva, urlava e io le accarezzavo il viso. Quando Tiziano è venuto alla luce la vita che solo poche ore prima pulsava dentro la pancia era sparita. Arresto cardiaco diceva il referto. Dopo il sangue è arrivato anche il latte, colava dai seni a gocce dense e bianche a reclamare il suo ruolo nella profezia.” (Pag. 83)
Sangue e latte come tensione vitale, «struggle», che in inglese suona particolarmente bene. La difficoltà nel pronunciare questa parola richiama la lotta e la fatica che lo consuma. Ludovico si osserva, si mette a nudo in un processo di scarnificazione che lo lascia senza pelle, esposto e vulnerabile. Ludovico si spoglia, e per farlo individua uno strumento. Uno doppio. Astratto e Fisico. Che agisce sul pensiero e sulle mani. Ludovico «parla» e «scrive». Sceglie la parola, e l’abbraccia in entrambe le sue forme: verbale e scritta.
“Era l’analisi che cominciava a dare i suoi frutti. Parlavo. Raccontavo di me, della famiglia, delle cose, degli altri. Ed erano le parole, l’uso di certe frasi al posto di altre, il parlare finalizzato in contrapposizione al tacere che costituivano la mia più grande rivoluzione.
Prestavo attenzione a quante volte all’interno di un mio discorso ricorrevano le parole dovere, obbligo, morale, compito ed efficienza, e mi sforzavo, quando il senso della frase lo permetteva, di riformularla con le parole potere, volere, affetto, amore, creatività, progetto e determinazione. Studiavo l’etimologia e mi accorgevo che le parole che sceglievo e il tono di voce con cui le pronunciavo modulavano il mio stato emotivo e la mia capacità di agire, e con stupore anche le reazioni degli altri.
Avevo scoperto uno strumento che mutava il senso delle cose. Se fossi riuscito a scardinare il vecchio blocco linguistico avrei avuto un terreno in cui scatenare la creatività e piantare radici. Ero io il perno su cui potevo agire, e la parola avrebbe avuto un ruolo essenziale.” (Pag. 49)
“Per ora scrivo, mi concentro sulle parole. Sul senso che svelano. Sul racconto di un padre, un contadino che dissoda la terra, figlio di padri che avevano dissodato la terra, che sposta lo sguardo e vede nel figlio, troppo alto e con i piedi e le mani troppo grandi, un fisico non adatto al lavoro nei campi. E per la prima volta nella catena dei padri e dei figli rinuncia a tramandare se stesso e gli dona un’altra possibilità. Mia madre mi ha spinto fuori di casa, ha agito come quel padre, anzi ha fatto di più, ha usato la sua forza per non farmi rientrare. Ha rotto la tradizione.” (Pag. 76)
Ed è proprio la parola che gli consentirà di «afferrare» il ruolo che nella sua vita, nella vita delle persone che ha accanto, che ha incontrato, ha giocato e gioca la tradizione. Che, con le sue regole e norme, opprime e cuce addosso a chi vi è dentro, e Ludovico vi è immerso, un immaginario stereotipato, anche quando evolutivo.
Si accorge che anche quando è spinto fuori dal proprio contesto lo è secondo spinte ben precise e determinate; le spinte dei «suoi». Dove l’aggettivo possessivo «suoi» raccoglie la famiglia, il paese, il territorio e un modo sedimentato che è «il» modo di vedere le cose. Una cultura prefabbricata che secondo Ludovico permea l’intera nazione.
Il romanzo apre proprio con un «buco» nella cortina della tradizione.
“Ho lasciato il lavoro di ingegnere, l’invocato contratto a tempo indeterminato.”
E per l’intero testo, Ludovico continua a minare i luoghi della tradizione. Apre «buchi» in spazi oppressivi subdoli e difficili da individuare. Dà spazio al non detto, contrappone la parola al tacere, e scardina uno dei pilastri degli ambienti oppressivi, il silenzio. Si permette di sentire. Di desiderare. Di raccontarsi. E quest’azioni sono violente. Non sono indolori. Appunto «bucano»
“… ho rotto la tradizione, sono il primo della mia famiglia che entra in una stanza e decide di parlare di se stesso.” (Pag. 76)
Nascondevo il dolore. Nascondevo la morte, gli aborti, le malattie, le cattive giornate, i soprusi, le gioie che agli altri provocano dolore, le pulsioni più intime che temevo di condividere convinto di deludere. Tacevo. Avevo imparato che il silenzio è d’oro. (Pag. 103)
Ho allentato il morso del non detto. Ho raccontato il silenzio che faceva male, e l’ho trasformato in dialogo. (Pag. 107)
Buona lettura!
Eugenio Di Donato
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