“Sacro niente”: riflessioni sull’umano
“Sacro niente” (Voland, pp. 247, euro 18) è il nuovo romanzo di Giovanni Bitetto, insegnante, scrittore e giornalista culturale.
“Non posso condannare gli uomini per la costanza delle proprie azioni. Se togliessi loro i desideri. E la forza con cui hanno deciso di votarvisi, non rimarrebbe nulla, sarebbero sacchi vuoti, pupazzi animati da meri istinti biologici. E anche la realtà, questa realtà modellata dalla loro mano, anche io che sono frutto del loro ingegno, anche i miei fratelli, prodotti in serie da questa volontà, tutti noi e tutt’intorno a noi sarebbe nulla, la spina dorsale del mondo senza più midollo. Benedirò per sempre le finzioni degli uomini, sono stato creato per questo.”
In un meridione dimenticato da tutti ma non da Dio, la morte, il lutto e l’amore si intrecciano ai piedi di un blocco di marmo: una statua di Padre Pio si fa portavoce delle esistenze di uomini e donne comuni, non assolve, non giudica, ascolta le storie che gli vengono affidate. Personaggi comuni e allo stesso tempo universali (un padre, un figlio, un’amante, un autista, un barbiere…) che si confessano al santo, senza maschere né filtri.
Un bellissimo pretesto, quello che crea Bitetto, per scandagliare l’animo umano, per indagare a fondo pulsioni e sentimenti, nell’eterno tentativo di dare un senso all’esistenza. Lo fa attraverso cinque macro capitoli: negazione, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione. E lo fa attraverso alcuni personaggi ricorrenti, come il custode Antonio che ogni giorno lustra la statua parlandogli, e il giovane figlio del proprietario della villa in cui si trova la statua: entrambi occasione per riflessioni e confronto sull’uomo.
L’uomo per quello che è: così tanto ama, così tanto fallisce, spera e odia e con tenacia costruisce simboli, come la stessa statua, che facciano da scusa, da giustificativo, da contraltare per le proprie azioni.
Storie sulla grammatica comune, sulla grammatica dell’amore e quella del dolore come a più riprese le definisce Bitetto, passando per quello slancio utopico senza il quale non saremmo capaci di percepirci come parte di un tutto che ha senso. Un’utopia che va a braccetto con l’illusione di andare uniti verso un avvenire, finché non sopraggiunge la morte a ricordarci che ognuno va per conto proprio. Fa paura, non siamo fatti per pensarci soli, da qui l’esorcizzazione del lutto, con i riti, da qui statue e simboli.
Una paura (istinto di conservazione?) che ci fa restare spesso sulla superficie delle situazioni, vedendo ciò che si vuole, ci serve, convinti che il senso di colpa basti alla redenzione, e che il male si faccia solo per errore.
Bitetto ci mette davanti all’uomo come paradosso: accumula conoscenza col passare degli anni, eppure affronta ogni giorno un presente che non conosce.
E infine, la statua come proiezione delle nostre credenze, riflesso di noi stessi e della speranza che riponiamo nell’altro. Una statua che si fa metafora: nasce dalla mano dell’uomo che plasma polvere e torna alla polvere, da nulla al nulla. Da sacro a niente.
Nel mezzo, materia e vita, quella che non va mai come si spera “se non all’interno del cinema a dieci sale del proprio cervello”, quella che non ci fa diventare saggi, ma solo uomini che hanno vissuto.
Laura Franchi