“Melanconia di classe. Manifesto per la working class” di Cynthia Cruz
“Quando capii che non sarei mai stata accettata nel mondo, inteso come il mondo della classe media, era già troppo tardi. Ormai la persona che ero un tempo non esisteva più. Sapevo di non appartenere alla borghesia, ma non potevo più tornare a casa. Ero diventata qualcos’altro, ma cosa?”
Quando parliamo di working class parliamo di “tutti i lavoratori precari e sottopagati di qualsiasi genere” e Cynthia Cruz, con questo saggio “Melanconia di classe. Manifesto per la working class” (Edizioni Atlantide, pp. 245, euro 18, traduzione di Paola De Angelis) vuol porre l’attenzione su quella melanconia che prende piede nell’individuo quando si trova ad abbandonare le proprie origini working class. Negli Stati Uniti non si parla di classi sociali o di classe lavoratrice, anche se la maggior parte dei cittadini statunitensi appartiene alla classe lavoratrice, vivendo nonostante tutto in povertà. Allora, come può sopravvivere un individuo senza sapere nemmeno di esistere?
Il suo studio comincia a partire dalla sua stessa esperienza di vita, attraverso cui poi arriverà ad analizzare le vite di artisti, musicisti, scrittori e registi della working class che hanno deciso di abbandonare la propria realtà, reprimendo le proprie origini, per riuscire finalmente a diventare qualcuno, senza mai dimenticare che i valori e l’estetica della classe dominante condizionano l’individuo proletario che vive in una società neoliberista.
Si crea dunque una sorta di etichetta che contraddistingue quelli della working class dal modo di vestire, ad esempio, dalla pronuncia di una parola o dal lavoro che fanno; esperienza vissuta in prima persona dalla scrittrice che da ciò cominciò man mano a comprendere che, quello che la circondava, era un mondo borghese. E proprio di questo cominciò man mano a provare vergogna, guadagnandosi anche nomignoli come trailer trash o white trash (pezzenti/feccia bianca).
“Provai e provo ancora vergogna per la persona che sono”
Da ciò scaturiscono sentimenti e reazioni come depressione, anoressia e rabbia. Pensiamo, ad esempio, all’infelice sorte di Amy Winehouse:
“Con il passare del tempo il suo corpo si rimpicciolisce, e anche la sua vita diventa sempre più circoscritta e compressa: si riduce al corpo di una bambina che si droga e patisce la fame insieme al suo fidanzato in un piccolo appartamento di Camden Town. Alla fine Winehouse, come Curtis, diventa un contenitore del libidico: simbolico, un gesto disperato che cerca di comunicare l’indicibile, mentre le parole restano intrappolate all’interno del corpo.”
I Pearl Jam parlavano, invece, della frustrazione della working class; ma mentre loro ne parlavano solamente, i Joy Division ne venivano fagocitati, sprofondando nella depressione. Troviamo, inoltre, i protagonisti della working class nelle pellicole di Andy Warhol o nel film Wanda di Barbara Loden e nei tanti altri esempi che Cynthia Cruz ci pone davanti per capire l’evoluzione di determinate scelte, attraverso questo saggio dettagliato ed esaustivo, che non lascia nulla al caso.
“Cosa resta, dunque, dell’artista della working class che abbandona le sue origini per diventare qualcuno? Nient’altro che un guscio, una sorta di armatura che si è costruito da sé”.
Marianna Zito