LONG DAY’S JOURNEY INTO NIGHT al Wyndham’s Theater di Londra
I muri trasparenti che circondano il soggiorno creano il cambiamento tra il giorno e la notte e ci permettono di esplorare l’immensità del mondo esterno e di confrontarla con l’universo emozionale, spirituale e fisico in cui i personaggi si ritrovano intrappolati. Rob Howell nell’elaborare la scena non ha potuto evitare di attenersi attentamente alle indicazioni di O’Neill ma è riuscito ad esprimere se stesso e il suo personale approccio al testo ispirandosi ai quadri di Howard Hodgkin.
Questa è la nostra prima impressione sulla nuova produzione del West End, il capolavoro di Eugene O’Neill “Long Day’s Journey Into Night” in scena fino al 7 aprile al Wyndham’s Theater di Londra, con la regia di Richard Eyre. Eugene O’Neill è figlio d’arte, di un attore, ed è quindi cresciuto in un contesto teatrale, ed è questo il motivo principale per cui ha cercato di creare una propria visione di ciò che è necessario dire e trasmettere al pubblico. La suo convinzione era che la vita fosse solo una cavalcata verso la morte, che speranza non ha motivo di esistere e che ogni sogno è solo un terribile incubo. Il suo genio pessimista è chiaramente visibile in tutte le sue opere e in tutte le sue produzioni. Suo padre gli chiedeva semprese il suo obiettivo fosse quello di provocare il suicidio dei suoi spettatori ma, come sostiene il regista Richard Eyre: “Non credo che l’umanità sia pregevole o che la morte sia devotamente da desiderare. Al contrario… Sento una riluttante ammirazione, compassione, persino speranza per le persone sofferenti che – attaccate e ferite – sono legate tra loro da una sorta di amore”. Ed è proprio questo che traspare alla fine del dramma, un senso di sofferenza, quella sensazione che la felicità non sia mai stata trovata ma, allo stesso tempo, si percepisce anche una forza che è quella che, alla fine, ci permette di affrontare e lottare contro le avversità della vita.
Jeremy Irons veste i panni del protagonista James Tyrone, e oramai non ci sono più dubbi sul suo grande talento attoriale, ma Lesley Manville per l’interpretazione di Mary Tyrone necessita di una menzione speciale, per la sua interpretazione profonda, così profonda che sembra quasi che sul palcoscenico ci sia in quel momento una persona a noi molto vicina, come un parente o un amico. Il lavoro di tutto il cast (Matthew Beard, Roy Keenan and Jessica Regan) è notevole.
Il pubblico non deve decidere la bravura dell’attore, ma può focalizzarsi su quanto l’attore riesca a capire in profondità il proprio personaggio e il modo il cui riesce poi ad interpretarlo sulla scena. Durante gli applausi finali gli attori ritornano sempre tutti insieme sul palcoscenico inchinandosi per ringraziare il pubblico e i protagonisti fanno un passo avanti per il loro giro di applausi per poi uscire di nuovo insieme, a differenza di ciò che succede in Italia, dove gli attori entrano ed escono per gli applausi almeno quattro o cinque volte. L’applauso è già meno sentito la seconda volta, figuriamoci una quinta.
G.R.
Traduzione di Marianna Zito