“Lo Zoo di vetro”: quando il dramma si fa memoria
Il teatro è quel luogo dove l’umanità celebra la parola e dove si impara a coltivare anche un’attenzione diversa verso la parola. A tal proposito il linguista francese De Saussure considerava la “Parole” il centro di quel fascio di energie in grado di generare l’espressione. Ed è proprio a questa forza espressiva di stile e di parola che sembra rendere omaggio “Lo Zoo di vetro”, spettacolo in replica al Teatro Vascello di Roma dal 22 al 27 febbraio.
Dopo aver recitato il ruolo del padre Agamennone in “Santa Estasi” di Latella, dopo aver messo in scena “Spettri” di Ibsen e il focolare della famiglia Alving alla Biennale Teatro di Venezia, il regista Leonardo Lidi decide di bussare alla porta di un’altra famiglia, quella dei Wingfield. E lo fa con un adattamento originale e antinaturalistico, allontanando il testo dalla ricostruzione millimetrica della realtà per toccare territori metaforici, sarcastici, e per certi versi disturbanti.
Quello raccontato è un dramma della memoria, come dichiara in apertura di sipario Tom (Tindaro Granata) alterego dell’autore: “Mi chiamo Tommaso e sono un pagliaccio. Sono qui per raccontarvi la mia verità. Per farlo ho bisogno di finzione, io vi darò verità sotto il piacevole travestimento dell’illusione. C’è molto trucco e c’è molto inganno. Il dramma è memoria, è sentimentale non realistico”. La resa di sospensione e di immobilità prodotta dai ricordi di Tom è ben descritta dalla struttura della casa (Nicolas Bovery) al centro del palcoscenico, simile ad un gigantesco carillon rosa che se da una parte richiama la disillusione nella quotidianità e la desolazione interiore, temi cari ai dipinti di Hopper, dall’altra ripropone il mondo fantastico e meraviglioso plasmato dall’immaginario di Wes Anderson nelle sue pellicole. Su questo allestimento dai tratti noir campeggia il fantasma di una grande assenza, la figura del padre con cui i vari personaggi sono costretti a turno a fare i conti. Amanda (Mariangela Granelli) è una madre coraggio, abbandonata dal marito e ossessionata dalla ricerca di un uomo per la figlia claudicante Laura (Anahì Traversi) una creatura timida e indifesa, che si preoccupa solo di cantare vecchie canzoni e di custodire con cura la sua collezione di animaletti, un vero e proprio zoo riposto all’interno di un cartone, popolato da cavalli, uccelli e delfini di cristallo, briciole ormai dei ricordi ereditati dal padre. È un’anima fragile come le sue statuette, e soffocata da un opprimente complesso di inferiorità. Contrappunto maschile è il fratello Tom, un giovane infuocato dalla poesia, che lavora di giorno nel magazzino della città in cambio di una misera paga, ma di notte cerca conforto al cinematografo, dove fantasticando sulle avventure degli altri, sogna di trovare un’esistenza autentica. A destabilizzare questo tenero e allucinato quadretto è l’irrompere di Jim (Lorenzo Bartoli) un pretendente per Laura, che per gran parte dello spettacolo, resta seduto a osservare dall’esterno, per poi infierire, disgregando le dinamiche della famiglia.
La storia così riletta sotto la lente della contemporaneità assume una forma inedita. Lo spettatore, infatti, si trova di fronte a un impianto dalle sfumature felliniane e a una famiglia abbigliata con costumi da clown (Aurora Damanti) in cui non si riconoscerà visivamente, ma alla quale si sentirà vicino per l’alternarsi dei ruoli attivi e passivi dei componenti, la maniera di tessere rapporti, il modo di soffrire, di sorridere, semplicemente di essere, come succede quando la maschere cadono giù e si vive per davvero. Molto bello il certosino fraseggio a incastro condotto dalle voci di Ganata-Granelli, quando madre e figlio si accusano a vicenda. Sul finale, nel momento in cui la giostra di finzioni si sgretola in un mare di trucioli di polistirolo, crolla con essa anche quell’ipocrisia, specchio di una società ingabbiata da regole e costumi prestabiliti, non lontana per certi aspetti da quella odierna, e contro cui si era scagliato lo stesso Williams all’epoca in cui scrisse l’opera. Più di tutti il personaggio di Laura risente di questo desiderio dell’autore di voler denunciare un ingranaggio inceppato, così come è emotivamente paralizzata allo stadio infantile la stessa coscienza della ragazza. Ed è proprio il non essere riuscito a salvarla dalla sua debolezza e mancanza di volontà che continua a tormentare il fratello Tom, anche quando il ragazzo scapperà via abbandonando la famiglia, come suo padre aveva fatto prima di lui. Quello a cui si assiste in fondo è un enorme flashback, un lucido dramma del passato che si è già concluso, ma che rivive ostinatamente nella memoria di Tom-Pierrot, il quale ogni notte, rintanato in qualche bar davanti a un bicchierino e una sigaretta, spera disperatamente che Laura spenga le candele del suo ricordo per poterle una volta per tutte dire addio.
Diana Morea