“LO SGUARDO AL CIELO: CREDENZE E MAGIE TRADIZIONALI” DI GIUSEPPE COLITTI
Ora che sono all’alba di una vecchiaia, spero lunga e dignitosa, la memoria tende sempre più in un ritorno al passato, non certo con rimpianto ma con nostalgia, quello sì. Nostalgia delle ore accanto al fuoco, immaginando il freddo al di là delle finestre, nostalgia per la neve, nostalgia per tutte le sere passate, io bambino, nella bottega di mio nonno che faceva il calzolaio a sentire racconti, storie, fantasie, ricordi. Quel mondo appena trascorso oggi appare così lontano, perso in una modernità che tutto brucia, velocemente senza misericordia alcuna. Cosa potremmo mai lasciare come ricordo di ciò che siamo stati se, improvvisamente, perché non ci sono più profitti da fare, Google spegnesse i server? Dove mai potremmo rivolgerci visto che le vecchie enciclopedie sono scomparse, soppiantate dal digitale? Immaginiamolo questo futuro prossimo senza “Siri” il nostro assistente virtuale che ci predice il tempo e i numeri da giocare al lotto, senza “influencer” che non avranno più da influenzare nessuno perché le finestre dove affacciarsi saranno irrimediabilmente chiuse, quando si spegnerà la voce che insistentemente, oggi, ci ripete “fra trecento metri, svoltare a destra”?
Dopo aver letto il magnifico testo di Giuseppe Colitti “Lo sguardo al cielo” (Donzelli Editore, pp. 280, euro 30) tutte queste riflessioni mi hanno tormentato per giorni e alla fine, nell’eterno dibattito tra storia e memoria, ho dovuto introdurre un terzo elemento: il racconto. Non è una ripetizione, non è “la memoria” il racconto è cosa diversa, è memoria che si fa parola, che arricchisce, colora, a volte modifica, ciò che è stato, ma lascia intatto il fulcro di un passato ormai lontano, ma vivo negli occhi e nelle nostalgie, mai nel rimpianto. Questo credo sia il punto fondamentale del testo di Colitti, il senso dell’immane lodevole lavoro di raccolta di testimonianze in un Sud d’Italia genuino, fatto di credenze, di leggende, di tradizioni perdute. Ed è quello che abbiamo perso, “lu cunto” il racconto, perché sopraffatti, inondati dalla televisione, storditi dai social, persi tra le innumerevoli app dei cellulari. Nella prefazione Pietro Clemente scrive “Forse tanti anni fa il cielo era diverso, e quando vi si rivolgeva lo sguardo succedevano cose che oggi non succedono più”, ma forse siamo noi che non ci accorgiamo nemmeno di essere sempre sotto lo stesso cielo; è giusto e naturale che le cose si modifichino, che ci sia un’evoluzione, un progresso, giusto passare dal lume a petrolio all’energia elettrica, ma dobbiamo conservare memoria di quel che è stato, memoria che si traduce immancabilmente in un racconto, altrimenti un lume a petrolio rimane solo un oggetto di cui non conosceremmo mai l’uso e la funzione.
È un libro da leggere con attenzione, stavo per dire con devozione, perché le voci che “raccontano” ci parlano di fatti lontani, di cose perdute, di tradizioni che non esistono più, ma che solo attraverso “lu cuntu” possono essere tradotte in un concreto immaginabile, visibile, concreto. Solo così capisco, ripassando oggi davanti alla bottega ormai chiusa di mio nonno, che le scarpe non si risuolano più, cosa rappresentava, cosa significava quell’insegna ormai stinta di “Calzolaio”.
Francesco De Masi