Lear non abita più qui
Un Lear tradito tre volte. Dalla sua generosità, dalle prime due figlie e dalla chiave di lettura che Giorgio Barberio Corsetti ci ha proposto e che vediamo in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 10 dicembre.
Confesso di essere un po’ agè e che il Re Lear del mio immaginario è un Re lungimirante che, anzitempo – in un eccesso di fiducia – programma la sua successione, forse per poter seguire e guidare le proprie eredi nei momenti più cruciali di un governo. Ma tant’è che, pur mantenendo il titolo di Re, egli cede il potere e chi ha le leve del comando può modificare le regole a proprio vantaggio e piacimento. Ed è proprio quello che fanno le due ingrate eredi.
Il Lear che ho visto (e percepito) – interpretato da Ennio Fantastichini – è l’espressione più negativa e lasciva delle segrete stanze del potere ove le due figlie maggiori si mostrano parte attiva. Non è un RE con il suo bagaglio di Nobiltà, Fierezza, Onore ma un “Maschio in andropausa” . La sua pazzia è paragonabile alla demenza senile. Tutte le figure che lo circondano e lo accompagnano nel suo calvario, sono molto ben connotate e testimoniano il lavoro svolto. Lear è lasciato in ombra, quasi un terzo incomodo. Entra in scena da un taglio centrale e verticale del fondale dove campeggiano fronte pubblico Goneril e Regan supine, affiancate, a gambe nude e piegate. Una nascita nefasta? I tableaux vivant evocano piatti freddi di sushi. Le scene di guerra una vetrina di giocattoli “army“.
La musica dal vivo, stridente e potente, sottolinea perfettamente l’evolversi della pazzia e della disperazione, sostenuta dalle immagini lugubri proiettate a tutto fondale. Vale la pena vederlo per cercare una diversa chiave di lettura che la sottoscritta non ha saputo cogliere. Plauso agli attori tutti. Spiccano le tre carnefici e vittime.
Carmela Rossi