“Latlong” il nuovo disco dei Campos – La recensione
“Latlong” era il nome di un brano: avevamo solo accostato le abbreviazioni di latitudine e longitudine e il nuovo nome suonava come una parola di una lingua sconosciuta. Ora possiamo dire che “Latlong” sta per latitudine e longitudine, che è un modo per dire “mondo, per dire “specie”, per dire “noi”.
Esce oggi “Latlong” (Woodworm / distr. Universal Music Italy), il nuovo album di brani inediti dei Campos, il gruppo composto dal trio Simone Bettin (già co-fondatore dei Criminal Jokers), il musicista e producer Davide Barbafiera e il bassista Tommaso Tanzini, anticipato dal singolo e videoclip Sonno. I Campos con questo disco arrivano al loro terzo lavoro discografico, distanziando di due anni il loro lavoro “Umani, vento e piante” e allontanandosi linguisticamente – ma non nel sound – dall’esordio discografico in lingua inglese “Viva”, del 2017.
Sono 11 i nuovi brani dalle meravigliose sonorità acustiche che, con innesti elettronici, danno vita a una atmosfera folk sopra le righe, poetica e armonica, che si ispira “a storie di esploratori del passato, di aereonauti e di vulcanologi”, cogliendone soprattutto le sensazioni e i suoni appartenenti al loro essere – con il corpo e con la mente – nei luoghi e nella natura.
Si comincia con “Sonno”, quel sonno che diventa fuga dalla realtà e dalle delusioni – “mi sono perso nel sonno/viaggio troppo nel niente” – alla ricerca della strada più semplice, senza nemmeno provare mettere in discussione se stessi. Strada piena di percussioni melodiose e leggere che, attraversando un’atmosfera bucolica, si apre alla voce soave della natura, con sfumature elettroniche e attraverso lo scorrere dell’acqua. Ed è dall’acqua di un fiume, dalla natura stessa, che fuoriescono i protagonisti di “Figlio del fiume”, che si amano a modo loro e in maniera sempre diversa, sulle corde di una chitarra, “l’eco dei boschi non aver paura di ascoltare”. E arriva “Santa Cecilia”, traccia che prende il nome da una strada di Pisa, che ci parla della futilità delle cose davanti a una perdita importante, come una persona amata, “ti prego/non andare via”. È il momento in cui tutto si frastaglia, vediamo le cose da fuori ma vi ci troviamo comunque dentro, sentendoci scossi e disorientati. Come in “Ruggine”, dove i problemi corrodono il protagonista che chiede aiuto per risollevarsi ma, al tempo stesso, non vuol essere salvato… “ma quante vite/pensi di avere ancora”?. Mentre l’acqua continua ad alzarsi. E ancora un fiume, fino a “Blu“, il colore del mare, un cerchio in cui si perdono i punti di riferimento. Il mare dove tutto è uguale per tutti. Non dà punti di riferimento, ma neppure angoscia. Disegna l’orizzonte e vi lascia sospesi a fissarlo, spiegano gli artisti, “dove finisce l’orizzonte inizi tu”. “Addio” incarna il distacco, quella paura di andarsene o morire e di essere dimenticati; mentre “Mano” nasce dall’adrenalina di un pericolo, da un vulcano e dall’amore di due vulcanologi, che sfidano il destino, aspettando che il vulcano esploda, tenendosi per mano. Poi arriva la speranza con “Lume“, che è la luce su pensieri di confessione, è la luce sulla verità, “anche se fosse solo per decidere di cambiare/anche se fosse solo per decidere di andare”. Con “Dammi un cuore” si ricerca una ricomposizione di ciò che è stato, per poter in qualche modo ricominciare tutto da capo, “voglio la vita che non ho vissuto”. Fino al “Paradiso“, quel un morire ogni tanto per vedere cosa avviene dall’altra parte. E poi tornare, per poter dire che “non c’era bisogno di morire”. Ghost track!
Marianna Zito
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