La rivista If dedica il nuovo numero a Stephen King “Reality, Stranger than Horror”
Stephen King è uno degli scrittori più prolifici attualmente in attività, con più di sessanta romanzi pubblicati, decine di raccolte di racconti e alcuni volumi di non fiction. Nel mentre scriviamo, siamo sicuri che in programma ci siano almeno un paio di nuovi titoli in attesa d’essere pubblicati, pronti a entrare nel mercato internazionale.
Perché Stephen King è anche questo: una “macchina di storie” sempre attiva, un macinatore di sogni e realtà; uno scrittore ossessionato dalla scrittura “in un sistema di produzione del testo narrativo […] che ambisce a costruire un mondo parallelo a quello “reale”, rispetto al quale però non si limita a proporsi come una fuga dal quotidiano e dall’ordinario, ma viceversa come immagine anamorfica che proprio grazie alle strategie di deformazione e distanziazione tipiche del fantastico consente di penetrare più a fondo oltre la superficie del visibile e soprattutto a riflettere sulle modalità di articolazione del rapporto che intercorre tra realtà e fiction”, come scrive Valerio Massimo De Angelis nell’introdurre il nuovo numero della rivista “IF” (Odoya, 2020, pp. 208, euro 15) dedicata appunto al celebre scrittore americano: “Stephen King. Reality, Stranger than Horror” celebra e analizza le opere del Re dell’horror indagando le ramificazioni intertestuali della sua opera che negli anni si sono propagate non solo all’”esterno”, cioè a definire l’immaginario comune dei lettori e degli spettatori cinematografici che magari non hanno mai letto direttamente un suo romanzo (senza contare le serie tv, i giochi di ruolo, i videogiochi), ma seguendo i fili che hanno portato King a intessere una trama di autoriferimenti atti a formare un percorso parallelo di lettura interno alle sue opere, avendo come punto centrale la saga de La Torre Nera.
La pervasività di Stephen King nella cultura popolare la si misura anche con uno sguardo retrospettivo, ripercorrendo le tappe del suo pseudonimo, Richard Bachman, che visse a cavallo tra i generi. Percorrono questa strada Umberto Rossi e Carlo Bordoni. Il primo, in particolare, sottolineando come già a diciannove anni, quando scrisse La lunga marcia, pubblicato appunto col nom de plume di Bachman, King stesse già tessendo i fili del multiverso del quale dicevamo sopra. L’anali di Rossi, infatti, è utile per chiederci quanto corrisponda al vero la definizione di King come Re dell’horror, poiché già dalle sue prime prove si possa notare come non sia solo l’orrore la sua chiave di lettura del Reale (e il discorso sul Reale e le sue implicazioni nella narrativa ce lo spiega benissimo sempre Valerio Massimo De Angelis nel suo saggio Reality Than Horrorr: il ritorno del Reale in 22/11/’63), ma un ibrido di generi, un “carattere “impuro”, scrive Rossi, una costante della scrittura di King. Una sorta di genesi di questo ibridi ha ragioni storiche: lo scrittore di Bangor, Maine, ha sempre raccontato d’essersi abbeverato, nella sua sete di storie, coi fumetti e romanzi cosiddetti pulp: “il mondo delle riviste pulp (tra la fine XIX secolo e i primi anni Sessanta del XX) e poi delle collane di pulp paperbacks (che in qualche modo rimpiazza il mercato dei pulp magazines dagli anni Sessanta in poi) era caratterizzato da una considerevole osmosi dei generi, perché molti scrittori passavano dall’uno all’altro con grande disinvoltura”, scrive Umberto Rossi, citando i casi di Isaac Asimov, Fritz Leiber e altri scrittori cardine del genere. “Il motivo di questa versatilità”, prosegue Rossi, “sta ovviamente nei vincoli imposti dal mercato editoriale: i nomi citati sono quelli di scrittori professionisti che si guadagnavano da vivere vendendo racconti e romanzi brevi e romanzi a riviste ed editori rivolti a diversi segmenti del mercato […] La versatilità era quindi una dote che “pagava” nel senso letterale del verbo”.
Scoperta relativamente presto la doppia personalità dello scrittore, King non abbandonerà però l’argomento del doppio, tema evidentemente essenziale sin dall’inizio della sua carriera, che tornerà in più romanzi e racconti, come ad esempio nel più esplicito La metà oscura. Questa fase della scrittura e della vita dello scrittore, ce la illustra molto bene Riccardo Gramantieri nel saggio Raddoppiare e perturbare: Stephen King e i suoi doppi.
Come dicevamo, i nuovi studi intorno alla narrativa di Stephen King si concentrano sul quello che è diventato il multiverso kinghiano, per cui ogni romanzo sembrerebbe essere una particella di quel grande universo generale costruito intorno alla saga western-horror-fantasy de La Torre Nera. Alissa Burger ce lo spiega in Other world than these: The Dark Tower, generi letterari e interconnessioni. Ma non solo la fiction, anche il Reale, come dicevamo, entra nella narrativa kinghiana. Se infatti è vero che l’impasto di generi, tra cui ha preminenza l’Orrore, sia il campo prediletto da King, per molta critica la sua scrittura può essere definita d’impianto realistico. È proprio dalla vita quotidiana, in prevalenza dalla vita della provincia americana, che lo scrittore è stato sempre attratto e ha costruito la sua mappa di orrori. Ecco che allora, la mano di King, narratore fiume, racchiude tra le proprie pagine gli eventi reali per trasformarli, piegarli alle proprie esigenze, provare a creare un mondo alternativo. Pensiamo al bellissimo 22/11/’63, in cui il protagonista viaggia tra passato a presente per evitare l’omicidio del presidente Kennedy, non sospettando come cambiare la storia possa aprire la strada a più deleteri futuri. E la Storia americana, quella grande e quella fatta dai piccoli, dalla gente comune, King l’ha sempre saputa narrare come pochi altri scrittori realistici.
Siamo pertanto felici di leggere questo volume, sintomo di un’attenzione della critica italiana a un autore prolifico e fondamentale per comprendere il mondo che ci circonda e che abbiamo lasciato. Sempre a patto di fare i conti con le nostre paure, con l’orrore della nostra anima umana.
Giovanni Canadè