“La piazza del diamante”, il capolavoro di Mercé Rodoreda
“La Piazza del Diamante” (La Nuova Frontiera, 2020, pp.198, euro 15) di Mercé Rodoreda racconta la città, una Barcellona mai totalmente menzionata, ma riconosciuta nelle sue tante parti sfaccettate. I quartieri, le case e le strade, la realtà di un piccolo mondo contestualizzabile da un punto di vista storico intuibile, quello tra il 1930 e il 1950, che vede qui protagonista la guerra civile spagnola. E poi c’è la relazione che i personaggi stessi hanno con questo spazio che interiorizzano, rielaborando – attraverso tutto ciò che li circonda – i loro stati d’animo, per adeguarsi, per forza di cose, alla realtà del momento.
“… e che al mondo non c’era niente come il Parco Güell e come la Sagrada Família e la Pedrera. Io gli dissi che, tutto considerato, troppe onde e troppe punte”.
Ed è proprio in questa città che i personaggi crescono, cambiano e muoiono, con il mutare delle stagioni e della Storia, che continua a fare il suo corso. Il lettore stesso è, sin da subito, proiettato in questo spazio, ne respira l’aria, ne ode i suoni e ne percepisce l’atmosfera che, come la vita, presenta anche dei punti vuoti, freddi e tragici. Come il buio che si crea quando la voce di Colombella, o meglio di Natàlia, non è ascoltata o è messa a tacere. Come il baratro che si crea con l’arrivo della guerra. È quindi la città stessa a dar voce ai personaggi, e sembra quasi che Natàlia stia parlando a noi direttamente dalla piazza, dalle vie o dai suoi diversi appartamenti; sembra quasi di sentirla quella voce che ci racconta non solo la propria vita, ma tutto ciò che intorno a essa vortica, creando un forte legame con quei posti dove quotidianamente si sente la eco del suo passo, accompagnato ora dalla speranza ora dalla desolazione.
Siamo in Piazza del Diamante nelle prime pagine del romanzo, quando Colombella, o meglio Natàlia, incontra per la prima volta Quimet, e con lui balla. E siamo in piazza del Diamante anche alla fine, in un freddo mattino dopo un giorno felice, quando tutto le ritorna addosso, in modo confuso e inesorabile.
“Mi sembrava che tutto quel che facevo lo avessi già fatto senza però sapere né dove né quando, come se tutto fosse piantato e radicato in un tempo senza memoria…”
Mercé Rodoreda, grande scrittrice catalana del ventesimo secolo, racconta il mondo attraverso se stessa e attraverso la voce di Natàlia. Lo fa con minuzia di particolari, con un’attenzione estrema e intima, tanto che a un certo punto ci sentiamo anche noi in guerra, e travolti dalla miseria della fame. Siamo terrorizzati davanti alla sorte di Quimet e soffriamo della quotidianità di Colombella e dei suoi figli. Cerchiamo con loro una via d’uscita che arriverà a tempo debito e con le dovute rinunce, speranze e sacrifici. Sono tanti gli elementi attraverso cui l’autrice costruisce le vicende e sono per lo più gli oggetti quotidiani o le luci che, quando diventano blu, significano guerra. E sono le colombe. E a ognuna di queste cose Colombella dovrà rinunciare per tornare a essere solo Natàlia, per andare avanti. Per tornare a vivere. Un romanzo vero, spiazzante, che porta in sé la potenza del cambiamento e della rinascita, raccontato dalla delicatezza e sensibilità da una voce sola, quella – come scrive nella sua postfazione al libro Claudia Durastanti – “di una ragazza del popolo, così piena e viva di cose”.
Marianna Zito