La classe operaia dal Paradiso al Teatro
Forse per chi, come chi scrive, ha vissuto gli anni settanta come gli anni del grande cambiamento e della grande illusione, lo spettacolo in scena al Teatro della Pergola di Firenze dal 27 febbraio al 4 marzo La classe operaia va in Paradiso di Paolo di Paolo con la regia di Claudio Longhi, trasposizione teatrale del film di Elio Petri del 1971, serve per capire il perché quella pellicola ha avuto il pregio non solo e non tanto di far man bassa di numerosi premi in tutta Europa, ma anche di unire nel dissenso e nel rifiuto studenti, sindacalisti, operai e intellettuali.
Si risentono gli echi delle voci gracchianti nei megafoni che invitano alla lotta, che ricordano agli operai che, in quanto tali, non usufruiscono della luce del giorno perché la loro esistenza trascorre tra due intervalli di buio, quello dell’alba quando entrano in fabbrica e quello del tramonto quando escono dalla fabbrica, sacrificando la vita e gli affetti con la sola prospettiva di un futuro senza speranza, se non quello di una malattia professionale o di una vecchiaia di follia. Si risentono le sirene della polizia chiamata in quegli anni ad interrompere la liturgia quotidiana dei cortei di “Studenti e operai uniti nella lotta”. Allora, forse – vedendo sulla scena l’anima narrante della genesi del film – ci si rende conto che l’operazione che era stata fatta nel film altro non era che la visione asettica e distaccata di due intellettuali che si erano limitati, rifiutando qualsiasi approccio neorealistico, a osservare senza capire e senza misericordia alcuna, il materiale umano della fabbrica condannato a una produzione parcellizzata e quindi sconosciuta, a un cottimo feroce il cui scopo era solo quello di portare a casa qualche soldo in più da spendere in oggetti inutili che tuttavia non avrebbe mai avuto il tempo di usare.
L’incidente sul lavoro dello stakanovista Lulù Massa, risveglia gli interrogativi e le contraddizioni che stanno dall’una e dall’altra parte e mentre sullo schermo scorrono gli anni, cambiano i costumi, la società via via si modifica e si evolve ripiovono le briciole di un trascorso intervallato tra i fumetti di Linus ed i fotoromanzi della Lancio, da Carosello alla fenomenologia di Rischiatutto descritta ed analizzata da Umberto Eco e gli attori, mescolati al pubblico aprono il dibattito come era d’uso; ci si accorge che il tempo ha solo modificato un lessico senza altro cambiare, anzi abbattendo – perché inutili e dannosi – quei risultati in maniera fortunosa raggiunti in quel cammino incerto e nebbioso del vogliamo tutto e lo vogliamo subito. Un controllo da grande fratello ha sostituito il sistena MTM del cronometrista, la fabbrica quale icona di quegli anni ha oramai assunto una conformazione strutturale quasi liquida dove il padrone è solo un’entità misteriosa quasi teleologica ma soprattutto non ci sono più classi di operai, ma eserciti senza nome di pseudo intellettuali impegnati in precariati senza ritorno, confusi in sterminati call center, immersi nei corridoio degli scaffali strapieni di merce di Amazon condannati alla rincorsa dell’ultimo modello di smartphone. L’infortunio sul lavoro però continua a succedere e non si tratta più di qualche falange di troppo, ma di altoforni che esplodono, gru che cadono, palazzi che si sbriciolano.
La messa in scena teatrale è un’opera corale di grande impegno. E nonostante la geometria perfetta della musica di Vivaldi suonata dal vivo e interrotta di tanto in tanto da brani dissacranti che servono a misurare il tempo, nonostante la bravura e la gran fatica degli attori Donatella Allegro, Nicola Bortolotti,Michele dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo e Filippo Zattini forse nemmeno questa volta la classe operaia riuscirà ad andare in Paradiso.
Francesco De Masi
Fotografie di Giuseppe Distefano