Il Decameron del ventunesimo secolo in scena al Teatro Litta di Milano
1300. Sette donne e tre uomini per dieci giorni si isolano per sfuggire alla peste nera che invade Firenze. A turno ogni giorno, ognuno di loro racconterà una storia per ingannare il tempo. Giovanni Boccaccio scrisse questa storia nel suo “Decamerone”, diventato uno dei pilastri della letteratura italiana. Settecento anni dopo, il mondo intero si trova ad affrontare il Covid-19 che porta a misure restrittive per un lungo periodo, un evento che nessuno poteva immaginare, ma che trova nella letteratura un precedente importante. Nello specifico del presente del XXI secolo, i lavoratori dello spettacolo sono tra le categorie che hanno dovuto fermarsi drasticamente, nell’attesa della ripresa delle attività. La vita sociale si è fermata, i teatri hanno chiuso per mesi, il distanziamento è il nuovo contatto. Ciononostante il lavoro degli artisti di teatro è proseguito e ha preso forma in un progetto nato ancora prima dello scoppio della pandemia. Una casualità? Chi può dirlo. La cosa certa è che dagli eventi dell’ultimo anno e mezzo è nato uno spettacolo che ha delle affinità fin troppo evidenti con il Decamerone di Boccaccio. Quale migliore occasione per raccontare la realtà? Da qui “Decameron. Una storia vera” perché non è necessario immedesimarsi o immaginare ciò che è successo nel 1300, basta il presente, il qui e ora che ogni persona sta vivendo e che sul palco troverà un’interpretazione, anche se non verranno mai nominate, per fortuna, parole come “pandemia” o “virus”, le abbiamo già sentite abbastanza, sono implicite, le abbiamo capite, le abbiamo assimilate.
Fino al 10 luglio è in scena sul palco del Teatro Litta di Milano “Decameron, una storia vera”: un gruppo di sei artisti mostrerà al pubblico il loro isolamento durato dieci giorni raccontando storie che prendono spunto da una realtà contaminata e discutibile. La drammaturgia di Filippo Renda attraversa momenti scomodi, che portano a riflettere molto sulla natura umana, sulle influenze che la pandemia ha avuto sulle persone e sui nuovi modi di vedere le cose. Il progetto e la regia di Stefano Cordella hanno raccontato in modo dinamico e spudorato quanto si nasconde nell’animo umano, che molto spesso è tutt’altro che piacevole, ma profondamente vero.
“Come possiamo dire di esistere veramente?”
I dieci quadri a cui gli spettatori assistono percorrono un percorso circolare, che parte da un countdown, che ricorda quello che trasporta da un anno all’altro, ma che in realtà scandisce i secondi che mancano al ritorno alla vita reale. Nel mezzo, storie identificate da una parola, un argomento che sviluppa idee e conseguenze. In scena, Woody Neri, Alice Redini, Filippo Renda, Daniele Turconi, Nicolò Valandro, Silvia Valsesia, un gruppo affiatato che offre momenti di intrattenimento pungente, alternati a situazioni in cui sgorga la psicosi da mancanza di contatto dopo un isolamento forzato, che porta reazioni violente e inaspettate, o ancora barlumi di speranza, in cui si va alla ricerca di se stessi attraverso percorsi alternativi di dubbia utilità. Ma non è finita: la tecnologia non può mancare in questa epoca in cui la maggior parte dei contatti e delle relazioni si intrattengono utilizzando uno smartphone o un social network e in cui lo sviluppo dell’intelligenza artificiale è il prossimo obiettivo. E poi l’ambiente e gli animali, dove li mettiamo? Come possiamo preservare le specie e gli habitat?
Il messaggio resta aperto perché ancora ignoto è il prossimo futuro: come sarà la nuova realtà? Ci mancherà davvero il vecchio modo di vivere? Di cosa sentiremo nostalgia? Attraverso un gioco di luce, ombre e colori, lo spettacolo porta alla luce le parti più inconfessabili che si possono celare all’interno dell’uomo, senza pudore.
Roberta Usardi
Fotografia di Alessandro Saletta