“I pescatori di perle” inaugurano la stagione del Regio
Nell’arioso atrio foderato di cedevole velluto rosso le signore arrivano con la grazia intellettuale che contraddistingue chi, per propensione alla resilienza, ancora va all’opera ogni mese. Sono proprio tante, le madame. Molte camminano a braccetto col marito, altrettante incedono in compagnia delle amiche: plotoni d’eleganza indefessa, ultimi austeri baluardi d’una estetica che abbiamo oggettivamente perduto. Hanno tutte qualche fulgido orpello discreto da ostentare, sì, ma con modestia. Ci avviciniamo con cautela a un manipolo di queste sacerdotesse distinte ma non altezzose, e origliamo spudoratamente. E tra le chiacchiere leggere – il figlio, la nuora, il cane, la sindaca, i tailleur, i necrologi, il meteo, gli acciacchi – qualcuna commenta la stagione. Nessuno lo dice ad alta voce, forse, ma in generale si percepisce un sincero clima d’interesse per un cartellone audacemente battezzato con “I pescatori di perle“, una splendida opera minore di un compositore che tutti ricordano solo per la Carmen. Poi però qualcuna lo sussurra: Finalmente qualcosa di nuovo!
Dopo gli undici anni di Gianandrea Noseda, il Teatro Regio di Torino subisce un cambio al vertice: dal 24 luglio di quest’anno la direzione artistica è passata infatti a Sebastian F. Schwarz, che è anche sovrintendente. Tedesco, classe 1974, si è laureato a Berlino e perfezionato a Venezia, sia al Benedetto Marcello sia a Ca’ Foscari. La sua stagione -chiariamolo subito – rivela scaltrezza ma anche ardimento: tanti i titoli triti e ritriti (Tosca, La Bohème, Il Barbiere di Siviglia), ma molto spazio è stato lasciato invece, e menomale, ad opere e balletti meno arcinoti (Passione secondo Matteo, Il mago di Oz, My Fair Lady). Qualche disguido con un Flauto magico sostituito all’ultimo con Il Matrimonio segreto di Cimarosa, l’immancabile gala decembrino di Roberto Bolle, e anche quest’anno l’abbiamo sfangata su ogni fronte. E, in tutto ciò, ecco che Georges Bizet irrompe sulla scena proprio all’inizio di un’avventura che, comunque, ha tutte le carte in regola per rivelarsi produttiva, affascinante, vincente.
Les pêcheurs de perles è un’opera lirica in tre atti, la prima commissionata al compositore parigino. Presentata nel 1863 al Théâtre Lyrique della ville lumière, questa storia esotica e densa piace al pubblico ma non alla critica: dopo venti repliche dove gli spettatori non mancano, l’oblio. Poi però l’editore milanese Edoardo Sonzogno affida ad Angelo Zanardini la traduzione del libretto originale di Michel Carré e Eugène Cormon e, nell’86, lo porta sul palco della Scala. L’Italia, spesso diversa dalla Francia in termini di ricezione, si rivela capace di apprezzare la narrazione del giovane Bizet. L’aspetto più divertente di questo aneddoto, però, è che, una volta raggiunto il successo internazionale, I pescatori hanno continuato ad essere eseguiti in italiano anche all’estero, da Buenos Aires a Città del Messico e persino a Parigi, dove tornarono nell’89 sempre grazie a Sonzogno. La trama è quasi banale: sull’isola di Ceylon (l’odierno Sri Lanka), Nadir, un cacciatore di tigri, e Zurga, il capo del villaggio, si contendono l’evanescente Leïla. Però non si tratta del solito triangolo tipico del melodramma ottocentesco: Nadir e Zurga, infatti, dovrebbero odiarsi a morte e invece sono legati come due fratelli; tanto che tutto potrebbe essere inteso come una grande metafora della superiorità valoriale dell’amicizia sull’amore.
Il nuovo allestimento del Regio – in scena dal 3 al 20 ottobre – porta la firma registica di Cécile Roussat e Julien Lubek, poliedrici artisti francesi emersi dalla scuola del mimo che sono stati in grado di restituire davvero tutta la sincera e umile bellezza di un’opera forse non sconvolgente, ma di sicuro preziosa. Roussat e Lubek, che si sono occupati anche delle scene, dei costumi, delle coreografie e delle luci, hanno ricreato un’atmosfera incantata, modellando con maestria quel che di buono può esserci negli esotismi europei di fine Ottocento per riproporlo in termini sinceramente innovativi. Formalmente, si tratta di un’operazione riuscitissima: la scenografia, oscillante tra il liberty e l’art déco, è curata fin nei dettagli più impercettibili; i costumi sono gradevoli, funzionali, semplici ma non banali; i giochi di luce e le coreografie s’aggregano per delineare l’azione coinvolgente d’uno spettacolo prismatico, iridescente, caleidoscopico, bellissimo. Ineccepibile, poi, l’aspetto sonoro: Ryan McAdams non solo ha diretto magistralmente l’orchestra del Regio, ma è stato abilissimo a coinvolgere tutti gli interpreti, peraltro più che lodevoli. Particolarmente encomiabile, infine, l’intervento del maestro del coro, Andrea Secchi: il suo lavoro, che in altri allestimenti rimaneva piuttosto opaco, in quest’occasione ha elevato al grado di personaggio tangibile il gran drappello di coristi del teatro.
Davide Maria Azzarello