Gabriele Lavia ne “Il berretto a sonagli” al Teatro Carignano di Torino

Una scenografia che ha ripetutamente attirato la mia attenzione, quella del celebre spettacolo pirandelliano Il berretto a sonagli nella versione di Gabriele Lavia, in scena al Teatro Carignano di Torino dal 22 marzo al 3 aprile 2022. Sin dall’ingresso in sala mi sono trovata davanti a un palcoscenico diverso dal solito: un grande telo grigiastro, quasi sporco e che sembrava dovesse crollare da un istante all’altro, sostituiva il sipario e ai lati della scena erano posizionati alcuni manichini, talmente simili a persone reali da farmi domandare se non fossero attori già in scena. L’effetto viene poi moltiplicato a sipario aperto, quando anche la scena in cui recitano i personaggi è popolata da manichini in ascolto, un coro silente. Questa sensazione è resa ancora più estrema dalla scelta registica di confondere tra i manichini alcuni attori che, al momento dell’ingresso in scena, iniziavano a muoversi e creavano incertezza tra il pubblico. L’intera scenografia sembra quella di uno spettacolo di burattini: i personaggi, nei loro drammi e nelle loro attitudini, non fanno che evidenziare ripetutamente la piccolezza della propria esistenza. A questi elementi scenici si aggiunga l’escamotage della discesa orizzontale che dal palco conduce in platea e che si traduce nello sfondamento della quarta parete di pirandelliana memoria.
Il telo sullo sfondo della scena, che volutamente non copriva l’intero fondale ma lasciava a vista le quinte e alcuni oggetti più adatti al “dietro le quinte” che al palco, aveva anche un ruolo di centrale importanza nel continuo gioco di luci e ombre che anticipavano l’ingresso dei personaggi. La piccolezza dei figuranti di cui parlavo poco fa era anche evidenziata da questo gioco di controluce: se dietro al telo le ombre parevano imponenti e quasi spaventose, una volta scostato il telo ed entrati in scena diventavano minuscoli. L’instabilità e l’incertezza erano resi anche dalle gambe mozze delle poltrone e del divano in scena. Le scene sono di Alessandro Camera con l’aiuto dell’assistente Andrea Gregori.
Ciampa, interpretato dall’eccelso Gabriele Lavia, sembra essere l’unico personaggio in grado di mostrare ai personaggi sul palco che siamo tutti fantocci costretti a interpretare la parte che la società ci assegna, in un mondo di ipocrisia, superficialità e perbenismo borghese. È abile, inoltre, la scelta registica di intrecciare la versione dialettale dell’opera a quella in lingua italiana.
Accanto a Lavia, sul palco la splendida Federica di Martino (Beatrice Fiorica) in un’interpretazione forte, sincera, diretta e che fa arrivare subito al pubblico i sentimenti che vive il suo personaggio: una donna consumata dalla gelosia nei confronti del proprio marito. Ciampa di fronte a lei è vittima innocente di un dramma di cui è consapevole ma che non vuole pronunciare ad alta voce.
Accanto a loro sul palco un gruppo di attori molto diversi tra loro ma parimenti bravi: Francesco Bonobo (Fifì La Bella), Matilde Piana (la Saracena), Maribella Piana (Fana), Mario Pietramala (il delegato Spanò), Giovanna Guida (Assunta La Bella) e Beatrice Ceccherini (Nina Ciampa).
Ad aiutare la regia Lorenzo Terenzi insieme all’assistente Lorenzo Volpe, con il coordinamento di Andrea Viotti. I costumi sono stati ideati dagli allievi del terzo anno dell’Accademia Costume e Moda, le musiche di Antonio di Pofi e le luci di Giuseppe Filipponio.
Le tre corde che regolano la vita dell’uomo (la corda pazza, quella civile e quella seria) consentono, secondo Ciampa, la convivenza nella società. Solo quando la corda pazza prevale, la vita civile non è più possibile e un pazzo si mette in capo il “berretto a sonagli”, allora la verità può prendere a schiaffi in faccia l’umanità.
Giulia Basso