Fino al 30 giugno il castello di Roddi (Alba) ospita Enrico Colombotto Rosso
Nelle Langhe, tra Cuneo e Asti, si è sviluppato attraverso i secoli un circuito di castelli che val la pena di conoscere e visitare. Qualche nome: Grinzane-Cavour, Serralunga d’Alba, Govone. Negli ultimi tempi, alcuni si sono trasformati in mete turistiche di dubbio valore – vedi il Castello Comunale Falletti di Barolo, oggi palcoscenico per sfilate e concerti -, mentre altri conservano ancora una mistica e incontaminata autenticità – come quello di Roddi, a cinque minuti da Alba città. In quel di Roddi vivono all’incirca mille anime, l’Alba bene che si è allontanata dalla città, e il posto è stato famoso, in passato, per Giacomo Morra (1889 – 1963), il signore che riuscì a brandizzare il tartufo vendendolo a Marylin e a Churchill.
Il castello di questo piccolo sobborgo era nato nel Medioevo come presidio contro i mori, ci visse il nipote di Pico della Mirandola e poi passò sotto il regime dei Savoia, che però non ci abitarono mai e che quindi lo condannarono a oltre un secolo d’abusivismo. Fino al 30 di giugno, in questo palazzo che sta ancora cercando la sua vera vocazione culturale, sarà visibile una splendida selezione di opere di Enrico Colombotto Rosso, eccelso surrealista torinese dimenticato troppo facilmente dalle eminenze della critica artistica contemporanea. Sarebbe bello consigliare altri luoghi in cui ci sono le opere di Colombotto Rosso, ma purtroppo pare che nessuno si sia preso la briga di esporlo in qualche museo pubblico delle grandi città della penisola. Se si vuole vedere qualcosa bisogna arrivare fino all’archivio di Pontestura, alla casa studio di Camino, alla Villa Vidua di Conzano o alla Pinacoteca Civica di Savona. Tante delle opere di Colombotto Rosso riposano essenzialmente nelle gallerie e nelle case d’aste, che le vendono a cifre molto modiche, e dunque se si spostano vanno ad appendersi nelle case della gente. Solo Vittorio Sgarbi, durante gli ultimi anni di vita dell’artista (morto appena sei anni fa), gli ha tributato uno spazio in alcune collettive dedicate al grande pubblico. Ed è stato sempre Sgarbi, nel 2017, a denunciare la (presunta?) mafia dell’arte di Bonito Oliva, Celant e Bonami; la stessa che avrebbe relegato tanti nomi all’oblio. Ora, probabilmente Sgarbi esagera, ma effettivamente vien da chiedersi dove siano finiti anche altri artisti. Volendo rimanere su Torino: Gribaudo e Tabusso, per esempio. Come sempre, comunque, ognuno la pensi come vuole.
Enrico Colombotto Rosso ha vissuto una vita densa di incontri, eventi, relazioni. Ci sarebbe tanto da raccontare, troppo per riassumerlo in questa sede. Qualche estremo interessante: rifiutato (due volte) da Felice Casorati all’Accademia Albertina, grande amico di Leonor Fini, cofondatore (con Mario Tazzoli) della celebre Galleria Galatea di via Viotti, sceneggiatore, collezionista di giocattoli, trasformista, ideatore museale. La mostra al Castello di Roddi propone una strabiliante rosa di opere – molte delle quali di grande formato – che provengono da varie collezioni private e dalla Fondazione Enrico Colombotto Rosso di Camino. Le sale del castello si popolano di scintillanti scheletri danzanti, tetre regine adagiate su arabeschi aurei, vanitas secentesche che celebrano l’incalzare del tempo. La narrazione è stata organizzata in maniera piuttosto ordinata, la sovrastruttura che sorregge i quadri è molto ben pensata. L’illuminazione invece lascia un po’ a desiderare: talvolta i neon riverberano sull’olio delle tele rendendo difficile la ricezione. Ma questo è un quid che accomuna tante mostre. Il catalogo, poi, è stato prodotto dalla fondazione stessa, che però forse avrebbe potuto dedicarsi con più energia alla resa cromatica delle opere sulla carta stampata.
La mente che si cela dietro questa mostra è quella di Giorgia Cassini, studiosa genovese che in passato ha curato innumerevoli occasioni artistiche in cui è stato inserito anche Colombotto Rosso. Per l’occasione, abbiamo dialogato con la dottoressa Cassini, ed ecco cosa ci siamo detti.
D. M. A. – Secondo lei, com’è inserito Colombotto Rosso nello scenario critico contemporaneo? E, di conseguenza, che tipo di spazio occupa il maestro nell’immaginario culturale del pubblico?
G. C. – Come curatore e critico d’arte ho sempre dato il giusto merito al maestro Enrico Colombotto Rosso ritenendolo un protagonista dell’arte che occupa un posto eminente nella pittura italiana dal secondo novecento ad oggi. Per quanto concerne il pubblico ho riscontrato un notevole collezionismo anche a livello estero, dalla Francia agli Stati Uniti.
D. M. A. – Ci dice perché vale la pena di studiare Colombotto Rosso? Perché dobbiamo continuare ad esporlo?
G. C. – Perché è intrigante ed estremamente fascinoso e con le sue opere ha creato un messaggio fatto di senso pittorico e di preziosa trama visuale sempre sostenuta da una rara qualità surreale e simbolica.
D. M. A. – Secondo lei da chi era ispirato Colombotto Rosso?
G. C. – Colombotto Rosso ha assimilato gli apporti più vivi della cultura: nelle sue opere ritroviamo l’atmosfera allucinata tipica dell’arte di Munch, le folli maschere di Ensor ed il segno mordente e sicuro di Klimt, a cui unisce quell’essenza di Schiele che riguarda la vita e la morte nella loro inestricabilità.
D. M. A. – Lei lo ha conosciuto e lo ha frequentato. Ci dice qualcosa di lui?
G. C. – Per me era un amico carissimo, un interlocutore intelligente e appassionato soprattutto nel comune discorso artistico. Era un anticonformista, un artista autentico che non ha tradito la propria vocazione vendendosi al mercato, creando opere commerciali, decorative, rassicuranti, consolatorie.
Davide Maria Azzarello