“Essere un’orca e altre specie”: i racconti di Stefano Scanu
“Alle sette del mattino Piazza Duomo sembra un colpo di cipria, la cattedrale una meringa gotica che galleggia sui portici. I tram frignano nel nebbione che ubriaca di solitudine.”
“Essere un’orca e altre specie” (Ronzani Editore, 2022, pp. 128, euro 12) è un libro racconta di animali e uomini. Racchiude vicende, situazioni e vite. Ogni personaggio, che sia uomo o animale (o bambino travestito da animale), è lì al suo posto, a mostrare la propria esistenza o una “bella avventura”; a dare un senso o una vertigine alle proprie azioni; a riconoscere che “le cose della vita spesso sono indomabili e che in fin dei conti vanno dove vogliono andare”. Ci sono insetti che aggrediscono libri e ricordi o un delfino che sogna di essere un’orca assassina o tutti quei fulmini che colpiranno lo sfortunato Roy Sullivan e, ancora, tanti animali o persone pronte a provare dolore, amore e riconoscenza; pronte a tutto, anche a vivere o morire.
“Guinefort prova a leccare la faccia del padrone, gli spinge il muso contro cercando riparo e un po’ di quel buio di prima sotto un braccio o tra le cosce. Quello gli sussurra delle parole calme, gli batte dei colpetti sul fianco ossuto mentre con l’altra mano accarezza la schiena passando le dita sulla spina dorsale che sporge come un rosario sotto la pelle.”
Stefano Scanu scandisce questi racconti con una scrittura impeccabile. Ogni parola è al suo posto, perfetta, senza pretese, perché non c’è altro da aggiungere. È una scrittura ferma, curata e precisa, dove nulla è lasciato al caso, come Una cena scomposta o Il deragliamento, dove le parole si uniscono in poesia; come nel racconto Caccia grossa, in cui la storia del protagonista diventa inevitabilmente e inaspettatamente la nostra storia oppure Marcescente e Cinque vite, in cui ogni periodo diventa facilmente, nella nostra mente, uno splendido quadro.
“Quella volta il ragazzino se ne stava in piedi di fronte alla finestra della cucina. Studiava il cortile attraverso i vetri rigati dal temporale estivo e con lo sguardo vagava tra il paesaggio circostante e la sua immagine riflessa. Le righe orizzontali della sua polo si intrecciavano a quelle verticali della pioggia creando una specie di gabbia.”
Marianna Zito