Uno spettacolo ispirato da Women who love too much: Tiziana Prota al Café Müller
C’era una volta una donna follemente innamorata. Viveva in una grande casa verso l’est. Era innamorata, ma non di un uomo, né di una donna: era innamorata di… un animale, il quale non era più in vita, ma lo si sarebbe creduto, in vita. E anche la donna, la si sarebbe creduta viva.
Nonostante il presunto avvento che dovrebbe teoricamente ricondurci ad un teatro in presenza, continuano le messinscene computeristiche: ormai sempre più teatri si adeguano alle attuali contingenze e si propongono tramite la rete ad un pubblico che però inizia a sentirsi comprensibilmente estenuato dall’impalpabilità di questa distopia. Il weekend appena passato il Café Müller di Torino (tra i primi ad intuire le potenzialità dello schermo) ci ha proposto La table, un racconto che indaga le conseguenze di certi sentimenti svilenti. Sul palco, creatrice e interprete, Tiziana Prota: giovane, capace, accattivante, Prota nasce dalla Galante Garrone di Bologna, ma anche con i Cirko Vertigo di Grugliasco; prosegue alla Dans och Cirkushögskolan di Stoccolma, e poi inizia a lavorare per e con svariate compagnie europee come attrice e artista circense, per arrivare ad oggi col suo primo progetto da solista presentato in Italia, La table, per l’appunto, che si basa sul saggio Donne che amano troppo pubblicato nel 1985 dalla psicologa americana Robin Norwood, edito in Italia con l’Universale Economica Feltrinelli. La table è andata in onda in diretta la sera di sabato 30 gennaio, e ora lo possiamo recuperare in streaming su Nice Platform, assieme agli altri già avvenuti della stagione.
Buio. Un candeliere pian piano illumina lo spazio da una tavola posta al centro del palco. Ci sono anche un quadro, sulla parete in fondo, e una vecchia lampada. Una fanciulla in vestaglia ascolta un vinile mentre si spettina i capelli, seduta ad un capo del tavolo. Sale, piano, procedendo in quadrupedia sulla tovaglia cremisi, tra innumerevoli bottiglie vuote di serate passate, dimenticate. Ad attenderla, all’altro capo, una volpe impagliata: Monsieur Renard. Glaciale, anaffettivo, presuntuoso. La fanciulla, la protagonista, riordina le bottiglie che ha rovesciato mentre gattonava e poi, tenendo in mano un ventaglio aperto, inizia a camminare su quelle stesse bottiglie di vetro: uno spettacolo prodigioso, inquietante, penoso; una di quelle scene che fa davvero rimpiangere il teatro vero, dal vivo, che poi lo racconti agli amici e nessuno ti crede. La fanciulla, in circa quattro minuti, ripercorre la table in entrambe le direzioni mantenendo l’equilibrio sui colli di vetro, dove le piante dei piedi sanno trovare appigli invisibili, baricentri quasi metafisici che le consentono di non cadere: una magniloquente metafora di quella che può essere la vita di chi ama troppo, di chi si lascia vincere dall’ossessione, di chi è più o meno consciamente affetto da una di quelle patologiche forme di passione che invece di vivificare, mortifica. E come se dicesse: guarda come mi riduco, per te. La ragazza si è annientata e continua ad annichilirsi per una bestia scaltra che a sua volta non sa rinunciare agli agi che queste circostanze le assicurano. Di nuovo buio: la ragazza riemerge, ma ora è la narratrice di sé stessa: propone una sinossi musicata di quanto stiamo vedendo. Buio, ancora: parte un pianoforte, è Bach suonato da Aldwell, e mentre la luce ritorna, da sotto il tavolo riemerge la pazza, quella di prima, innamorata della volpe, e danza nevrotica, con una grazia tutta muscolare, scattante, quasi virile, e poi via di nuovo sotto il tavolo. Intanto, la volpe rimane impassibile e quasi snerva, infastidisce il pubblico, che vorrebbe urlarle di fare qualcosa, che lì c’è qualcuno che la ama anche se lei non lo merita; che quel qualcuno finirà per ammazzarsi, se non si agisce subito. Lei ritorna, e continua a danzare (talvolta illudendosi di aver riconquistato la libertà, per esempio sulle note di La vida es un carnaval) finché prevedibilmente soccombe, sviene. E le renard rimane lì, impagliato, impenetrabile, indifferente, egoista. Maledetto. Buio, ancora una volta: il piano riprende; una nuova inquadratura, una nuova scena. In un camerino l’innamorata beve smodatamente e, disperata, tenta di interpretare la parte che ha scelto per sé stessa e grazie alla quale ora si sta consumando. Ci sono un colbacco e un collo di volpe su quelle grucce nella quinta teatrale della sua stessa esistenza: magari, se quelle protesi le indossa, la aiuteranno ad essere migliore, ad aderire all’ideale irraggiungibile che vuole raggiungere. Poi magari fuori c’è anche un’altra vita, una possibilità di vivere in altri modi; probabilmente la libertà e la serenità esistono, così come è plausibile un mondo dove si possa ballare per la gioia di stancarsi, dove ci si può dondolare su un trapezio respirando a pieni polmoni. Sì, quel mondo esiste, ma non è tra le mie opzioni: io posso limitarmi a sognarlo.
La storia raccontata da Tiziana Prota non può essere compresa da chiunque, ma anche attraverso la logica del discrimine fra gli astanti c’è comunque qualcosa da imparare per tutti. Se sei come me, una folle amante malcorrisposta, puoi immedesimarti, comprendere, e intuire che prima o poi giungerà un momento in cui scegliere se guarire o soccombere. Se invece non sei come me, se il tuo modo di amare non ti annichilisce, allora ritieniti fortunato, guardati dalle volpi e soprattutto non diventare una di loro.
Davide Maria Azzarello