Torna “La scoperta dell’America” di Cesare Pavese con la curatela di Dario Pontuale
“L’America è uno stato d’animo, una passione. E qualunque europeo può, da un momento all’altro, ammalarsi d’America”.
E le cose che rimangono. Dopo il 27 agosto del 1950, dopo le righe majakovskiane – accompagnate da una frase che in sé racchiude quella sorta di ironia legata all’amarezza e alla disillusione, forse all’addio e alla vita stessa – cosa rimane di Cesare Pavese? Non me ne voglia Dario Pontuale – curatore di questo volume – se per cominciare sono partita dalla fine. Come Pontuale sostiene sempre, e a ragion veduta, non è questa fine a delineare chi fu Cesare Pavese, “il gesto estremo non basta per comprendere lo sguardo schivo del ragazzo diviso tra le colline paterne delle Langhe e gli aristocratici porticati di Torino”, scrive infatti nell’introduzione al volume. Ma, a volte, partire dalla fine è quasi necessario.
“La mia felicità sarebbe perfetta, se non fosse la fuggente angoscia di frugarne il segreto per ritrovarla domani e sempre. Ma forse confondo: la mia felicità sta in quest’angoscia. E ancora una volta mi ritorna la speranza che forse domani basterà il ricordo”.
Cosa rimane ce lo dice subito Ernesto Ferrero nella prefazione del libro edito da Nutrimenti “La scoperta dell’America” (2020, pp. 239, euro 15): rimane il suo diario, già pronto per gli occhi dei posteri, Il mestiere di vivere (Diario 1935 – 1950); rimangono racconti, poesie; e quei saggi e articoli letterari descritti e pubblicati per diverse riviste tra il 1930 e il 1950, da cui si intravede il coraggio di un uomo che studia da lontano; infatti Pavese -appassionatosi alla letteratura americana sin dalla tarda adolescenza – compirà il suo lavoro dall’Italia, non andrà mai in America, facendosi inviare i volumi da un carissimo amico e lavorando con un inglese approssimativo che lo renderà, se non il migliore, comunque un grande traduttore di questa letteratura di ritorno, che dall’Inghilterra arriva agli americani Pre e Post Colonial. Volente o dolente, dopo la morte di Pavese, sarà Italo Calvino a dover ordinare questi appunti, saggi e articoli del suo amico e maestro, che raccolse nel volume “La letteratura americana e altri saggi” e che al suo interno contiene nella prima parte “La scoperta dell’America”, riproposta appunto in questo testo.
Nella prima parte che va a comporre e completare questo prezioso volume, gli autori degli estratti scelti da Pavese sono undici. Attraverso di loro, Pavese riesce a costruire una linea della società americana del tempo, dell’influenza che la stessa aveva sulla letteratura e viceversa, quanto pesasse al tempo la letteratura sulla società e sul buoncostume. Cito in ordine sparso e per primo Walt Whitman, a cui sono dedicate lunghe pagine e a cui spesso Pavese ricollega e fa confluire tutti gli altri autori. Ricordiamo che sarà proprio Whitman a portare Pavese verso gli americani, quando nel 1930 Pavese discuterà la sua tesi di laurea sull’interpretazione poetica di Whitman. Ciò lo condurrà allo studio delle differenze linguistiche tra l’inglese e l’americano, all’analisi dello slang, verso una letteratura con una cadenza e un ritmo che non smetteranno mai di affascinarlo e che ci renderà con traduzioni ricche di musicalità. È affascinato dal periodo americano e nota analogie tra il nuovo e il vecchio continente; per la letteratura italiana di quel periodo, Pavese compie un vero e proprio miracolo, portando l’America in Italia. Proseguendo, sempre in ordine sparso, colpisce ad esempio la chiarezza dei personaggi di Lewis, l’evincersi della loro frustrazione e la loro conseguente fuga dal quotidiano per dedicarsi al “bere”, una ribellione per sentirsi liberi; un contenuto argomentativo molto lontano dalla standard europeo, sempre pronto ad attaccare le sue etichette sociali. Ed ecco quindi cos’altro fa Pavese, confronta i due mondi letterari, quello americano e quello europeo e cerca di scardinare questa letteratura per poterla, in qualche modo, vivere e farla vivere a pieno. E sempre in Lewis e anche in Sherwood Anderson tocchiamo il tema caro a Pavese nei suoi studi di traduzione, lo slang e il volgare americano, a caratterizzare i loro personaggi.
Cito altri due autori che, per motivi diversi, sono a me cari, Edgar Lee Masters e Gertrude Stein. La Spoon River Anthology del primo racchiude un insieme di azioni, un senso dell’esistenza, nonché i sensi di colpa di tutti i personaggi di un villaggio nordamericano sepolti nel piccolo cimitero, un moralismo legato senza dubbio alla religione e che arriva a noi grazie alle loro dolorose e angustianti parole post mortem, a cercare ancora risposte e rimpiangere vita, attraverso la poesia. Molto intensa e sentita la riflessione di Pavese sul passaggio all’italiano di questi versi, tradotti nel 1943 da Fernanda Pivano: “Qualcuna di queste poesie sembra diventata italiana a poco a poco, prima che nell’atto di tradurla, nell’insistente ricorrervi della memoria. Così il discorso che le accompagna, ricco di illuminazioni e riferimenti lampeggianti, pare che sottintenda un’avvenuta convinta assimilazione di gran parte della cultura che le produsse”. Ed eccoci a Gertrude Stein, unica donna tra gli undici, con il suo testo geniale, un espediente narrativo per parlare di sé, parlando in modo artefatto e fittizio di sé, l’ Autobiografia di Alice B. Toklas e l’ “eccezionale ambiente di artisti e scrittori che l’Autobiografia rievoca”, in un fluire descrittivo chiaro e intriso di vita. E mi piace ancora qui citare l’aspetto “intellettualmente insolito, bizzarro e queer” che appare nelle novelle di O.Henry, che da subito Pavese denota come “una delle personalità più imbarazzanti del mondo nordamericano”. E ancora Herman Melville, John Dos Passos, Theodore Dreiser, William Faulkner, F. O. Matthiessen, Richard Wright.
Dobbiamo molto a Cesare Pavese e ai suoi studi. È grazie al “poeta, scrittore, traduttore, critico, un letterato completo” che le parole della letteratura americana dell’Ottocento e del Novecento sono giunte sino a noi, senza emarginare le origini anglosassoni di questa lingua. Infatti, in appendice troviamo gli articoli dedicati agli scrittori inglesi, quali Daniel Defoe, Charles Dickens, Joseph Conrad e Robert L. Stevenson. Ma dobbiamo molto, nel caso specifico, anche agli studi, alla dedizione e alla tenacia di Dario Pontuale, a cui è stata affidata la curatela di questo volume e che conta alle sue spalle altri innumerevoli e importanti studi e volumi sui classici italiani e non. Perché, come diceva Italo Calvino, “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”.
Marianna Zito