Torino: Özpetek porta le sue Mine Vaganti a teatro
Mine vaganti. Sono passati dodici anni, ormai, dall’uscita dell’ottavo film di Ferzan Özpetek, oggi celeberrimo. Lunetta Savino ed Elena Sofia Ricci: indimenticabili. Scamarcio, Preziosi: belli e funzionali. Un dramma comico di alto livello, una storia di segreti e preconcetti, di conflitti generazionali, ignoranza e scoperte. Due fratelli, Tommaso e Antonio, entrambi omosessuali, scelgono la stessa sera per dichiararsi con la famiglia. Ma solo Antonio ci riesce, perché al padre viene un infarto. Cosa può fare Tommaso? Questa, in breve, la sinossi di una delle pellicole più piacevolmente grottesche di Özpetek, il quale sbarca anche a teatro, in veste di regista, per presentare una versione per palcoscenico del film di cui sopra. Dal 20 dicembre all’8 gennaio, per un totale di diciassette repliche, Mine vaganti è andato in scena al Teatro Carignano di Torino.
Non si è trattato di un’occasione teatrale fra le più sbalorditive, nel senso che l’obiettivo non era di impressionare tramite una qualche ricerca o processo, quanto piuttosto rievocare e rimodulare una situazione, un topos. La logica dietro una rappresentazione di questo tipo si basa sull’idea, semplice ma non banale, di ricreare dal vivo un prodotto culturale bloccato nel tempo. Per fortuna, premettiamolo, non si può dire che sia stato solo un atto autocelebrativo, ma anzi un ottimo tableau vivant recitato. La sceneggiatura è stata chiaramente riadattata, e il risultato funziona: rimane gran parte del testo originale, comprese le battute più iconiche, ma per esempio alcuni personaggi spariscono, come la sorella dei protagonisti. Rimane invece, e menomale, la mitica Teresa, la cameriera svampita. Non siamo più a Lecce, ma a Gragnano: la famiglia Cantone, dopo un decennio, il regista se la immagina meglio in Campania, perché intanto il Salento sarebbe diventato un luogo diverso, più aperto. A teatro, poi, data la sua natura, risulta quasi una trama nuova, più una commedia che per quanto ritmata conserva pigramente quelle note di tragico che riguardano chi queste storie le vive davvero. È una situazione di equivoci, di non detti, in cui anche l’estetica si unisce per assicurare la giusta atmosfera: i tendaggi di Marco Ferrigno, per esempio, oltre ad essere una metafora dei veli dietro i quali ci nascondiamo, rendono il tutto più arioso, ventilato, frusciante: nelle pieghe di quell’aria tirrenica vorticano invisibili i pregiudizi, le omissioni, le aspettative. Il cast, infine, consta di elementi molto capaci che hanno formato un gruppo coeso. Nei panni del padre Vincenzo troviamo Francesco Pannofino, che non ha bisogno di presentazioni: tutti conosciamo il suo modo di recitare. La madre, Stefania, è Iaia Forte, che risulta pressoché impeccabile. Edoardo Purgatori è invece Tommaso, il figlio che non riesce a dire la verità: come un narratore del futuro, ci concede i suoi ricordi. Antonio è Massimo Recano. La nonna, la più saggia e meno ipocrita, è Simona Marchini, elegante ma anche molto distante dall’allure che Ilaria Occhini aveva dato a quel personaggio. E poi Mimma Lovoi, che per altro recita anche nella serie de Le fate ignoranti, nei panni di una Teresa riuscitissima. Il team si completa con: Roberta Astuti, Sarah Falanga, Francesco Maggi, Luca Pantini e Jacopo Sorbini.
Davide Maria Azzarello