Tebe al tempo della febbre gialla: l’addio dell’Odin ha il sapore di una nuova rinascita
Come ha scritto magnificamente Ferdinando Taviani in “Il buio è una via”, in occasione del convegno “Laboratori, gruppi e studi teatrali nel Novecento in Europa”, tenutosi a Wrocław, in Polonia fra il 24 e il 27 aprile 1997: “Solo in teatro è possibile schiacciare il cuore e subito dopo inondarlo di calore. Stringere il cuore e inondarlo di vita” è un’opposizione che brilla. L’ultimo spettacolo dell’ Odin Teatret, “Tebe al tempo della febbre gialla”, ospitato, in apertura della stagione, dal Teatro Vascello, dal 26 settembre al 2 ottobre, ne è un esempio impareggiabile. A testimoniarlo la commozione e il calore degli spettatori che hanno avuto il raro privilegio, in queste sere, di partecipare ad un simile incontro.
Chi ha letto la storia dell’Odin Teatret, o chi, tra i più fortunati e caparbi, li ha seguiti da vicino, sa bene che le complesse vicende di questa compagnia sono state segnate da diversi addii e ritorni. Consideriamo per un attimo la biografia del suo regista salentino, Eugenio Barba. A soli 18 anni lascia il paese natìo e la lingua materna per piantare radici in Norvegia. È costretto, in seguito, ad abbandonare la Polonia, cacciato improvvisamente dalla polizia che lo allontana da Grotowski, da Flaszen, dagli attori del Teatr-laboratorium delle 13 file a Opole, da quella che era diventata la sua patria per tre anni. Giungiamo al presente, ossia all’ultimo spettacolo dell’Odin Teatret, dentro la cornice del Nordisk Teaterlaboratorium fondato nel 1983. A novembre la compagnia, prossima ai suoi sessantanni, lascerà definitivamente il Nordisk Teaterlaboratorium, dato che la nuova direzione ha operato scelte totalmente distanti dalle visioni e dai valori dell’ensamble. Eppure, questa nuova condizione di sradicamento, questo continuare ad essere “nomadi con radici, ma con radici in cielo”, sembra avere il sapore di una nuova rinascita.
Nell’opera presentata, la febbre gialla allude a quel fervore che può sorgere e divampare, in un città come Atene, dove ci sono ancora persone che desiderano ardentemente regnare in maniera giusta. Ma rappresenta anche quel fiume di frenesia creativa che ha invaso le tele di innumerevoli pittori impressionisti, le stesse che ritorneranno più volte nello spettacolo, quando intorno al 1850 iniziarono a essere prodotti industrialmente colori che potevano essere conservati in tubetti. “Giallo” ricorda l’oro, il sole che luccica, la fame di vita di Van Gogh, quando dipingeva i suoi tulipani e a volte, durante le sue crisi, ingoiava questo colore dal tubetto. Uno spettacolo ispirato alla tragedia classica di Sofocle, e un’ossessione, quella di Edipo, che accompagna Barba da tempo, avendo dedicatogli in passato ben quattro spettacoli. Il contesto tebano, la mitica città di Edipo, che corrisponde alla nostra condizione attuale, una Kiev oggi che piange i suoi morti, rivela il giorno dopo la battaglia. La ribelle Antigone è stata punita per aver profanato la legge della città. Creonte e Tiresia ordiscono la pace, mentre la Sfinge e la peste sono in agguato. Il pubblico accolto dal padrone di casa, prende posto sui cuscini e le sedie. Anche in questo caso, l’Odin rompe la convenzione della prospettiva centrale, per ritrovare un luogo «adatto» all’azione. La prima scena è quella di un rituale di purificazione, gli occhi seguono il lento incedere di Kai Bredholt, Roberta Carreri, Donald Kitt, Iben Nagel Rasmussen, Julia Varley mentre poggiano a terra delle piccole lanterne, che sembrano custodire le fragili fiammelle della resistenza di un teatro che ha persistito nel tempo. Come immagini anamorfiche, presenze dissimili in un continuo fluire, raccontano e cantano in greco. La sapienza di ogni loro gesto tesse continue relazioni, e di fronte al training, alla tecnica e alla carne di questi attori si ha la percezione chiara ed essenziale di cos’è un pezzo di vita che accade sulla scena, come lo è stato Ryszard Cieslak per Grotowski ne “Il principe costante”. Questi artigiani delle differenze usano una lingua antica, fatta di fischi e di trilli, una lingua che abbiamo disimparato a vedere, ma che fa parte di noi da sempre.
Una drammaturgia basata sull’intimità e sulla concatenazione di attrazioni in grado di coinvolgere a livello cinestesico prima che razionale. L’Odin mostra, così, come il teatro, in quanto fattore trasformativo, possa e debba fare politica, ma con altri mezzi, quelli della bellezza, della vulnerabilità, della rivolta e del rifiuto, per poter ricreare una relazione dello spettatore con se stesso, stimolandolo verso una nuova consapevolezza come agente politico, etico e spirituale. Eugenio Barba nel programma “Il sogno di Andersen” scriveva: “Il teatro può essere una radura nel cuore del mondo civilizzato”. Far zampillare la verità in un mondo di travestimenti; conquistare la sincerità in un mondo di finzioni; fare dell’educazione dell’attore il cammino verso l’integrità di un Uomo Nuovo. Sono questi i pilastri alla base di una transizione che dura, che è capace di creare i segni tangibili di una coerenza e di una pratica di vita e professionali. È il teatro come rituale vuoto che non si lascia usurpare dalle dottrine, che siamo chiamati responsabilmente a proteggere. È quell’esile fuoco della candela che va alimentato, nella illusione che chi verrà dopo saprà accendervi torce incendiare, perché “sette volte sette Tebe sarà distrutta e sette volte sette più una Tebe risorgerà”.
Diana Morea