“Resurge uomo, resurge donna” supplica la Cassandra di Jan Fabre
Le vicende di Cassandra, mitica sacerdotessa troiana, sono state narrate dai più grandi cantori di ogni epoca, a partire da Omero, Eschilo, Euripide, Boccaccio, Chaucer, fino ad arrivare a C. Wolf, che alle sventure di questa donna ha dedicato un intero racconto-monologo. In “Resurrexit Cassandra”, rappresentato al Teatro Vascello dal 4 al 9 ottobre, il testo potente ed esemplare di Ruggero Cappuccio, la musica di Stef Kamil Carlens, con effetti sonori di Christian Monheim, e la visionarietà dell’allestimento scenico e registico affidati al belga Jan Fabre fanno rivivere, ancora una volta, il mito di questa profetessa inascoltata, attraverso un’opera d’arte totale.
Risorge Cassandra dalla polvere del passato, dopo essere stata territorio di conquista, di possesso, di violenza, abbandona il grembo di madre natura in cui per anni ha trovato rifugio, attraversa le epoche, rimette insieme le sue membra disperse e ribadisce i suoi terribili vaticini. Una voce nel deserto che ritorna a farsi contemporanea e ad ammonire l’uomo di prendersi cura della Terra, oggi più che mai, altrimenti la Terra lo punirà. In scena, l’assolo dai toni epici e veementi di Sonia Bergamasco testimonia una grande prova d’attrice. Cinque quadri drammaturgici scandiscono il percorso solenne di questa donna, ciascuno segnato da un cambio di costume ben preciso (di Nika Campisi per Farani).
Il palcoscenico dall’aspetto lattiginoso, assediato da statuette di serpente di varie dimensioni, simbolo di dualità tra bene e male, tra vita e morte, vede all’inizio l’avanzare della mitologica sacerdotessa, figlia di Priamo, come uno spirito in lutto. Una dama velata, con un abito nero maestoso, dichiara le sue origini, spiega come la sua parola sia stata profanata e qual è la condanna che è costretta a subire. Secondo il mito, di Cassandra si innamorò il dio Apollo, che per avere le sue grazie promise di insegnarle l’arte delle profezia; così la giovane imparò la mantica, ma continuò a negarsi al dio e Apollo fece in modo che le sue profezie non venissero mai credute. Sullo sfondo della scena, addossata a uno schermo, un’ascia, la stessa che Cassandra brandisce nel video. Il film, girato da Fabre, scorre in simultanea con lo spettacolo, creando, spesso, un effetto che, nonostante la bella resa estetica, tende a distrarre l’attenzione dalla parola. Attraverso “una bocca che è buco nero della verità”, la profetessa esorta ad un risveglio delle coscienze su un presente amaro e incerto, si scaglia contro la miopia di un’umanità che offende e danneggia il pianeta, che innalza “arcipelaghi di plastica che galleggiano sul mare”, un’umanità smaniosa nella corsa sfrenata verso l’effimero, non più intenta a ricercare un ideale di bellezza in sé e negli altri.
Ora indovina estatica ora menade folle, Cassandra si sveste della propria “pelle”, così come cambia pelle il serpente, dal nero al rosso luccicante, blu, verde smeraldo, e infine bianco, mentre recita brani dei Beatles e ripete “Maledetti”, un anatema che ricorda all’uomo tutte le nefandezze commesse e le colpe di cui si è macchiato. Nell’ ultimo quadro i toni si fanno lapidari: “Non resterà vivo uno solo tra voi / se non lascerete che la pioggia delle mie parole vi lavi il cuore. / Non resterà un solo edificio / né una Pietà di Michelangelo né una cupola né un tempio dell’Ellade fanciulla / Non resterà una sola biblioteca / né un rigo soltanto di Virgilio. / Non ci sarà memoria / dei corpi imbalsamati dei Faraoni. / Di Stravinsky non ci sarà più nessuna nota. / Né si saprà cos’era un pianoforte. / Di Caravaggio non sopravviverà un centimetro di rosso. / Del sogno di Dante non ci sarà più traccia. / Ascoltatemi / Resurrexit Cassandra per tutti voi Resurge uomo / Resurge donna”. Cassandra invoca un recupero della spiritualità, un risveglio delle coscienze, una riappropriazione dell’essenziale. E lo fa in Teatro, che da sempre si contraddistingue per il suo statuto irrinunciabile di comunità, un luogo dove è ancora possibile il confronto e una collettività si specchia, dove, se lo si vuole per davvero, l’uno può essere il tutto, contro l’apparentemente infinto io, contro l’apparentemente infinto mio.
Diana Morea