QUEL PASOLINI DA LASCIAR PERDERE
“…sia nella campagna che si stendeva intorno abbandonata, verso i mucchi di casette bianche di Pietralata e Monte Sacro, sia per la Tiburtina, in quel momento, non c´era nessuno; non passava neppure una macchina o uno dei vecchi autobus della zona; in quel gran silenzio si sentiva solo qualche carro armato, sperduto, dietro i campi sportivi di Ponte Mammolo, che arava col suo rombo l’orizzonte.”
Portare in scena un’opera di Pier Paolo Pasolini è una responsabilità che comprende non pochi rischi. Il primo tra tutti è quello di ridicolizzare l’opera stessa dando una chiave di lettura differente dall’intenzione iniziale dell’autore. Ciò che mi ha colpito e demoralizzato maggiormente in RAGAZZI DI VITA diretto da Massimo Popolizio e con la drammaturgia di Emanuele Trevi sono state le risate del pubblico, accorso in gran numero alla prima del Teatro Argentina. A prescindere dal testo preso in esame, credo che nessun lavoro pasoliniano abbia questa capacità forte di far ridere. Al massimo può rubare un ghigno ironico. Quindi, forse, ho assistito a una parodia dove il leitmotiv era “l’urlo sguaiato dei morti”.
Diciotto ragazzi (18 come i ragazzi di Salò?) più un uomo, Lino Guanciale, che è la voce “borghese” narrante di questo spettacolo che vuol portare in scena il primo romanzo di Pasolini scritto nel passaggio del poeta dal Friuli a Roma, in cui racconta – in una sorta di documentario diviso a scaglioni – la vita dei ragazzi delle periferie negli anni del dopoguerra, costretti a crescere troppo in fretta ma conservando un’inesauribile vitalità in un momento storico in cui è forte l’eco del cambiamento sia sociale sia economico, in quella Roma tanto amata dal poeta. È una narrazione che sottintende la vita di questa gente – abituata a guadagnare e inesorabilmente a perdere – e al contempo la fatica del trascorrere delle giornate, con un linguaggio semplice, colorito e con una forte influenza gergale romanesca delle borgate. Sono frammenti dove vengono evidenziati l’ingenuità da bambino e la cattiveria da adulto, la fame, il sonno e il desiderio sessuale di questi ragazzi caratterizzati da un forte senso di pietà e allo stesso tempo da un’indicibile crudeltà.
«E che l´hai sarvata a ffa,» gli disse Marcello, « era così bello vedella che se moriva!» Il Riccetto non gli rispose subito. « È tutta fracica,» disse dopo un po´, «aspettamo che s’asciughi!» Ci volle poco perché s´asciugasse: dopo cinque minuti era là che rivolava tra le compagne, sopra il Tevere, e il Riccetto ormai non la distingueva più dalle altre.
La storia del Riccetto – un perfetto Lorenzo Grilli – e dei ragazzi delle borgate romane del dopoguerra è ben rappresentata dalla fisicità degli attori sulla scena, alcuni coperti solo nelle parti intime, che visti da lontano quasi animano un quadro caravaggesco. Marco Rossi per le scene lavora in profondità con un risultato coinvolgente a accattivante soprattutto quando dobbiamo sollevare il capo per guardare su un balcone, dove riesce a sfruttare con sintonia tutti gli spazi presenti. La scelta dell’uso della terza persona – come nell’opera originale e non solo da parte dell’attore narrante – crea curiosità e attira l’attenzione permettendo di avere una lettura da punti di vista differenti.
Anche i barlumi di omosessualità che ho individuato sulla scena a mio avviso non appartengono a Pasolini. Pasolini portava in sè – come ci ha raccontato Oriana Fallaci – la “disperazione di trovarsi uomo, il suo dolore di essere nato da un ventre di donna”. Era un uomo puro, disgustato dalla violenza e dal sesso che utilizzava per punirsi e umiliarsi perché non riusciva a trovare una strada per la salvezza. Si lasciava affogare nella volgarità per allontanarsi da ciò che amava, dalla bellezza. Quei ragazzi che ci ha raccontato nei suoi libri e nelle sue poesie sono gli stessi da cui “sognavi di essere ucciso, prima o poi, per compiere il tuo suicidio”. In questo spettacolo di Popolizio credo manchino principalmente la poesia e la raffinatezza di Pasolini. In un romanzo e in una vita, dove “la comare secca” è protagonista indiscussa, da ridere c’è ben poco.
Marianna Zito