“Open” – La storia di Andre Agassi all’Elfo Puccini di Milano
Sport terribile, il tennis. Un demone, un drago. D’altronde è lo sport principe, insieme alla boxe, del cadere e rialzarsi. Tutto è psicologia lì, e il campo è quello del sé, ossia a comandare sono gli spettri di chi tra sé e sé deve combattere per sperare di vincere.
Andre Agassi ha vissuto ventun anni, forzatamente, al centro di questo campo. “Open – La mia storia” all’Elfo Puccini ha dimostrato molte e buone idee, alcune ottime, grazie al lavoro per niente scontato dell’Invisibile Kollettivo. Entrare nel cervello di un tennista-personaggio di questo rango è come entrare nel cervello di un artista, un groviglio davvero difficile da raccontare (così come cercare «una vescica nel cervello dell’avversario» e lì continuare a battere per arrivare alla formula del “game, set and match”).
Le idee: i tasselli cartonati soprattutto, che di volta in volta faticano a comporre l’identità del tennista, un puzzle fatto di volto, gambe e braccia che non riesce, perché si complica, tenta di mettersi insieme, ma proprio non riesce. È stata la vita di Agassi, è stata così, lo sappiamo dalla sua autobiografia di straordinario successo: il padre-padrone, l’odio presto maturato per il tennis, la schiavitù fin da ragazzo impostagli da tutti gli automatismi, agonistici e mondani. La fama, la droga, le accuse. Ed è questo il nervo centrale dello spettacolo, come del libro. Tutto è, è stato, in frammenti/frantumi, come la schiena spezzata verso fine carriera. Ottima l’idea che si sia trattato di più voci a interpretare la figura del campione, più corpi a incarnarlo. Una scenografia minima e povera, giustamente, centrata su un “lenzuolone” tuttofare: che inscenasse il tennis-demonio, che elevasse a santità miracolistica il trainer Gil Reyes, che esagerasse il mito della scuola Bollettieri (per molti l’inizio della fine del tennis classico). E che desse nel finale volume alla splendida (e quasi “inascoltabile”, dopo la magia di Joker) That’s Life di Sinatra.
Momenti esilaranti sono un fiore dello spettacolo: il modo in cui il Kollettivo ha saputo restituire la caduta dei capelli di Agassi, dramma reale e simbolico, vista l’immagine scintillante e cialtronesca costruitagli intorno nella prima fase della carriera. Ma soprattutto è tutta da ridere la rappresentazione del rivale-amico Pete Sampras, il “Pistols” di Potomac, affetto come da una sorta di “ebetismo” caratteristico di chi appare incapace di emozioni, o ne è privo, di scosse, turbamenti. Applausi.
In questo quadro pienamente americano (caduta, mistura bene-male, dettatura del destino) c’è il richiamo a qualcosa di sacro e difficile, di terribile appunto, visto attraverso la lente del tennis, di cui il tennis cioè è solo metafora e la vita è il tema: si resta a metà tra il campione e l’uomo, perché insomma a una metà manca sempre l’altra e l’intero non si dà. Si resta, tutti, sul filo di un grande comune conflitto. Fama o non fama. Ma non è ammesso il ritiro, no. Agassi compie il proprio destino, lo accetta e si ritira solo nel 2006. Se in fondo ha sempre odiato il tennis, come ammette, tra tutte le difficoltà ha compiuto una storia, la sua. Una grande storia, umana e sportiva.
Cristiano Poletti