“Metafisiche”: Le apparenze del vero – Intervista a Riccardo Zipoli
Riccardo Zipoli, professore emerito di Lingua e letteratura persiana presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, autore di numerose pubblicazioni nell’ambito della letteratura persiana. Diplomato in regia e direzione della fotografia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Tra le sue mostre fotografiche in Italia e all’estero ricordiamo quella all’Institute of Contemporary Arts di Londra, alla XIV Biennale di San Paolo, al Museo di arte Contemporanea di Tehran, alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi. Nel 2019 è stato insignito del premio Hemingway per la fotografia con il volume in Domo Foscari, memorie e immagini di un ateneo, opera commissionata dall’Università Ca’ Foscari in occasione dei 150 anni dell’ateneo. Nel maggio 2021 viene pubblicato per Postcart edizioni, “Metafische”, fotografie dalla quarantena veneziana, un patrimonio di immagini e visioni, uno straordinario omaggio alla città lagunare. Riccardo Zipoli è qui autore a tutto tondo, avendo lavorato sia come fotografo sia come autore dei testi in italiano e inglese. Si tratta di prelievi visivi e pensieri profondi, lucidi della sua esperienza vissuta in due intervalli di tempo che scandiscono l’intera opera fotografica: le Cronache, riprese dal 7 marzo al 18 maggio, data del primo lockdown e una seconda serie di immagini le Visioni, frutto di un’indagine condotta dal 12 aprile al 12 maggio 2020.
Abbiamo incontrato l’autore al quale abbiamo rivolto alcune domande, consapevoli di come sia già stato detto tutto, forse anche troppo di questo momento storico e di come risulti complesso parlare di una città come Venezia.
La metafisica è quella dottrina filosofica che si presenta come scienza della realtà assoluta, che cerchi cioè di dare una spiegazione delle cause prime della realtà prescindendo da qualsiasi dato dell’esperienza. È possibile che questo tipo di immagini rappresenti davvero la metafisica, dal momento che comunque ciò che viene rappresentato è l’esperienza filtrata dall’occhio umano?
Per quanto ovvio, va anzitutto sottolineato un primo aspetto. L’utilizzo del termine “metafisiche” nel libro ha un valore fondamentalmente suggestivo, non tecnico, e mira soprattutto a creare lo sfondo utile per una possibile percezione dell’opera pubblicata. Ciò detto, non possono sfuggire alcune comunanze che fanno riflettere. Certo, la Metafisica aristotelica va oltre l’insieme contingente e transeunte dell’esperienza sensibile: essa mira a superare la continua, cangiante e caduca mutevolezza delle diversificate realizzazioni dei fenomeni per cercare di cogliere ciò che viene considerato necessario, essenziale e stabile. Comunque, è pur sempre il prodotto di una “esperienza filtrata dall’occhio umano”. Il mio procedimento visivo, senza alcuna pretesa di accostarsi a quelle riflessioni, segue un cammino che ha alcuni tratti “procedurali” analoghi. Per me, la “realtà” da rappresentare è Venezia, nella sua struttura “eterna” e “immutabile”, spogliata, nei limiti del possibile, delle sue manifestazioni temporanee, instabili e accidentali. L’assenza della popolazione e delle sue appendici pone le premesse per questo compito: raffigurare Venezia ‘in quanto tale’, liberata dai veli della contingenza umana del momento, e assurta così a una valenza di tipo universale (molto diversa, peraltro, da quella “omonima” spesso invocata dal mondo turistico che invece la opprime). Un’atmosfera “ideale” propiziata anche da particolari condizioni climatiche, la cui solarità e nitidezza hanno enfatizzato la singolare ‘unicità’ della visione, slegandola da condizioni particolari e provvisorie. Questa è, sostanzialmente, la Venezia delle Cronache, che pone le premesse per l’altra visione “metafisica” della città, quella offerta dalle Visioni. Qui il progetto azzarda un ‘audace’ salto di qualità. Lo sguardo si sposta sulla superficie acquea e molti aspetti di Venezia diventano, per alcuni istanti significativi, una sorta di “epifania” quasi incorporea, priva di sostanza e spessore. La pietra si incontra con l’acqua in una fusione che, a mio avviso, può ben rappresentare l’essenza stessa della città. Si tratta di una fragile ma suggestiva intuizione che supera le normali apparenze: spesso scompare, veloce così come è nata, preda nuovamente delle varie contingenze, ma intanto ha acceso una luce sull’anima della città. E qui siamo, appunto, al di là del tradizionale mondo concreto, giunti al cuore di una Visione metafisica resa possibile dalla prima metafisica delle Cronache.
Quale messaggio arriva da questi lavori fotografici?
A questa domanda mi pare possano rispondere alcuni commenti da me pubblicati nell’introduzione del volume (pp.22-23):
“Si tratta di immagini, nel loro complesso, per certi versi improbabili e provvisorie a causa di una costante miscela di vero e falso che contraddistingue, pur in contesti e per motivi discordanti, sia le Cronache sia le Visioni. La Venezia rappresentata nelle Cronache risulta certamente una variante vera rispetto a quella sovraffollata di visitatori e stravolta nei valori tradizionali, ma è anche una variante falsa, dato che la tipica vita cittadina, soprattutto negli ultimi tempi, è stata proprio quella dominata e guastata dall’economia turistica. Nelle Visioni, la contemporaneità dei due aspetti è a livello figurativo: i riflessi, per loro natura, mostrano immagini false, ma si tratta anche di scorci veri perché, pur in parte da me rielaborati, esistono e fanno parte delle vedute cittadine. In sostanza, le Cronache e le Visioni risultano apparenze tra loro diverse ma che, in modo analogo e speculare, rinviano, mostrando così una congenita debolezza, a realtà contrapposte. Ne esce un quadro della città che è certo “improbabile e provvisorio” ma che può aiutare a capire, per contrasto, quanto “improbabile e provvisorio”, per ragioni affini, sia anche la precedente e dominante versione sovraffollata e logora cui eravamo abituati e alla quale c’è il timore che, prima o poi, si ritorni in modo indiscriminato, riducendo questa tragica esperienza a un’inutile lezione. L’augurio è che Venezia riesca a trovare un moderno e ragionevole equilibrio che ne faccia un ambiente vivace, produttivo e umano senza più essere costretta a ripresentarsi come una seducente e inverosimile città fantasma ma senza neppure ricadere sotto il dominio implacabile e deformante di un’economia sfrenata. Di sicuro resta, comunque, un importante risvolto personale: dopo che il consumismo cittadino degli ultimi anni mi aveva indotto a mille dubbi, questa nuova ed esclusiva esperienza mi ha fatto innamorare di Venezia una seconda volta e questa volta, come spesso succede in tali casi, in un modo più intenso e convinto”.
Tutto il mondo è un palcoscenico, donne e uomini sono solo attori che entrano ed escono dalla scena (dal monologo della pièce Come vi piace, di William Shakespeare).
Le Cronache, è il gruppo di immagini che introduce Metafisiche, in cui la città appare come un palcoscenico, trasmette questa sensazione straniante, e sembra voler sottintendere che l’uomo è solo un elemento aggiuntivo che potrebbe mancare ma di cui non si sente la mancanza. Cosa pensi a tal proposito?
Mi pare che la citazione di Shakespeare sia molto azzeccata. Le presenze umane vanno e vengono su “palcoscenici” che spesso restano gli stessi. Specificherei solo che, nelle nostre immagini, “donne e uomini’ sono usciti di “scena” senza farvi ritorno e che la “scena”, rimasta deserta, ha assunto il ruolo di unica protagonista.
Mi piacerebbe sapere se c’è qualcosa che è rimasto fuori da questo libro, sensazioni, malessere o musica.
Da un libro fotografico restano ovviamente fuori una quantità innumerevole di elementi. Io sono rimasto colpito soprattutto da una ‘mancanza’. Come capita con ogni testimonianza fotografica, anche qua non è registrato il sottofondo ‘sonoro’ delle immagini: si trattava di un ‘silenzio’ profondo e inquietante che aumentava il senso ‘ideale’ delle scene rappresentate.
La fotografia, proprio perché può essere prodotta solo nel presente, rappresenta il medium più soddisfacente per registrare con obiettività la vita in tutti i suoi aspetti ed è da questo che deriva il suo valore di documento (Tina Modotti).
Quale tempo hanno avuto o hanno la pretesa di fissare queste immagini e, soprattutto, non credi che trascurino aspetti fondamentali della vicenda centrale, quali l’angoscia della presenza umana – in alcuni scatti solo accennata – le ansie e le preoccupazioni, la privazione dei luoghi fisici molto probabilmente vissuta, dietro le grate, le finestre mostrate?
Il mio progetto mirava a raffigurare la città “esterna”: mi interessava la struttura urbanistica e non gli spazi domestici (ai quali, fra l’altro, sono stati dedicati lavori da vari fotografi). Le poche persone raffigurate in città intendono solo accennare a situazioni emblematiche (persone con mascherine, operatori addetti alla sanificazione, soggetti in solitudine) scelte per indirizzare la fruizione dell’intera opera, lasciando al lettore la possibilità di immaginarne altre simili.
In conclusione: Visioni, la seconda serie di riprese con cui si chiude questo lavoro affascinante, si offrono come immagini dalla prospettiva non disarmante come accade per le Cronache, nei confronti delle quali sembrano scorrere parallelamente, accompagnate dal tremolio dell’acqua. Un percorso attraverso tre figure: l’apparenza, la conoscenza, la contemplazione.
La città e la natura avevano simbolicamente riacquistato una loro affascinante autonomia dall’invadenza umana, con i soggetti architettonici assurti a uniche presenze e con inattesi animali (meduse, polpi, cavallucci marini..) avvistati in centro storico (Metafisiche, pag.12).
Questo passo mi ha fatto pensare molto a come guardiamo, qual è la relazione con il nostro sguardo. C’è un racconto in Marcovaldo, ovvero Le Stagioni in città, particolarmente significativo, affine a quanto scritto sopra e che, sinteticamente, mi limito a riportare: “Aveva questo Marcovaldo, un occhio poco adatto alla vita di città… Così un mattino, aspettando il tram che lo portava alla ditta Sbav dov’era uomo di fatica, notò qualcosa d’insolito presso la fermata, nella striscia di terra sterile e incrostata che segue l’alberatura del viale: in certi punti, al ceppo degli alberi, sembrava si gonfiassero bernoccoli che qua e là s’aprivano e lasciavano affiorare tondeggianti corpi sotterranei. Si chinò a legarsi le scarpe e guardò meglio: erano funghi, veri funghi, che stavano spuntando proprio nel cuore della città! A Marcovaldo parve che il mondo grigio che lo circondava diventasse tutt’a un tratto generoso di ricchezze nascoste, e che dalla vita ci si potesse ancora aspettare qualcosa, oltre la paga oraria del salario contrattuale, la contingenza e il caropane”.
Giusi Bonomo