“Le stelle si spengono all’alba”: la parola come cura di sé e degli altri
Richard Wagamese è stato uno dei principali scrittori indigeni del Canada. “Le stelle si spengono all’alba” (La Nuova Frontiera, pp. 253, euro 17.50) è tra i suoi romanzi più celebri.
“Ci sono cose che a volte si rompono. Quando succede nel mondo, il più delle volte si possono aggiustare. Ma quando succede dentro una persona, è più difficile ripararle.”
Quando il sedicenne Franklin Starlight incontra per quella che sarà l’ultima volta suo padre Eldon, trova un uomo segnato dall’alcolismo. Sentendo che la sua fine è vicina, Eldon ha chiamato il figlio, che negli anni ha visto in modo intermittente e sempre più sporadico, perché lo aiuti a esaudire un ultimo desiderio: essere sepolto come un guerriero Ojibwe. Franklin all’inizio esita, perché quell’uomo che ha davanti per lui è un “estraneo ai margini della sua vita”, ma poi decide di assecondarlo e così padre e figlio iniziano un viaggio attraverso le foreste del Canada per giungere al luogo adatto alla sepoltura. Un viaggio difficile per i tratti impervi e per le storie che è tempo di dire, da parte del padre, e di ascoltare, da parte di Franklin.
“Chi può dire di noi se siamo questo o quello? A me sembra che la verità di quello che siamo è nascosta dove non si può vedere. (…) Alla fine le nostre storie sono tutto ciò che siamo.”
Le stelle si spengono all’alba è un romanzo sul potere della parola: quello di farci implodere se non detta, quello catartico se condivisa.
Eldon è “prigioniero delle sue parole”, e il suo aver taciuto per così tanto tempo è ricaduto anche su Franklin a cui mancano pezzi di storia, la sua. Sa che il “vecchio” che lo ha cresciuto non è suo padre pur comportandosi come tale. Sa di essere indiano, perché glielo hanno detto, per via dei suoi tratti, e per il confronto a volte doloroso con gli altri, a scuola come in città. Ma non sa cosa tutto questo voglia dire, non sa dove affondino davvero le sue radici. Nonostante il dolore che si porta dietro, Franklin accetta di rivedere il padre perché ha bisogno di sapere cosa vuol dire essere un figlio. Cosa vuol dire, anche letteralmente, essere uno Starlight.
Eldon, coll’avanzare del suo ultimo viaggio, assistito dal figlio, riesce ad andare finalmente oltre i sensi di colpa che hanno condizionato la sua vita intera e a raccontare i pezzi di dolore, gli eventi, le colpe vere e quelle pensate.
Ne emerge una descrizione netta di padre e figlio. Il primo ha subito il dolore, il secondo ne ha fatto il motore per andare avanti e fare quel che va fatto. Eppure, saranno le parole che finalmente emergono a farli sentire uniti e simili in un vuoto dolorosamente comune, quello lasciato da chi si è amato o si sarebbe voluto/potuto amare.
L’ambiente che li circonda diventa un ulteriore protagonista della storia. È la natura in grado di offrire tutto ciò che serve all’uomo: giacigli, cibo, cure. Un rifugio per i pensieri, una consolazione per la nostra storia.
Laura Franchi