L’ “Amleto” di Corsetti è una macchina roteante che si monta a vista
Luci in sala accese. C’è ancora chi prende posto, qualcuno sta spegnendo il cellulare, ma Amleto è già sul palco, si è tolto la scarpa, e poi un calzino, poggia il piede nudo su una presa, mentre in mano reca una piccola bottiglia d’acqua inclinata a metà, metafora di un modo di stare; recita così il suo “essere o non essere”, sapendo che la caduta di una sola goccia d’acqua potrebbe costargli cara la vita. Ma che importanza ha questo, quando il destino beffardo gli ha già inflitto dolorose angosce, e la visione dello spettro del padre rivendica la sua infamante uccisione? Il mormorio cede il posto all’incredulità, partecipiamo a questo rito di colpe collettivo con il fiato sospeso, fino a che il protagonista posa il piede a terra, inserisce la spina e dà inizio alla tragedia. Il classico Shakespeariano rivive nella regia di Giorgio Barberio Corsetti, inaugurando la stagione ufficiale al Teatro Argentina dal 17 novembre al 9 dicembre.
Il travalicare di umori e sentimenti del famoso principe di Danimarca è però affidato ad una moderna scenografia a più piani, spostati a vista dai tecnici, e in continua trasformazione. Una singolare macchina roteante, rappresentazione simbolica del mondo di Elsinore, dotata di fondali sempre nuovi, giardinetti con sedie a sdraio, moderni tapis roulant e ausili precari, che come tetti a spiovente costringono gli attori a costanti prove di equilibrio, salite e discese sfiancanti, facendone vacillare la forza recitativa, non sempre pienamente convincente. La sensuale Regina Gertrude (Sara Putignano), lo spregiudicato e lucido re Claudio (Michelangelo Dalisi), il cordiale Polonio (Francesco Bolo Rossini), il fraterno amico Orazio, l’innocente Ofelia (Mimosa Campironi), gli ingannevoli Rosencrantz e Guildenstern: sono solo alcuni degli abitanti di un universo di stracci logori, soggiogato da passioni e intrighi, non così lontano poi dal nostro grigiore quotidiano. Alla follia di un Amleto impudente (versatile e incisivo Fausto Cabra) è concesso il potere di evocare fatti e personaggi, di ricorrere alla stessa ‘trappola’ del teatro grazie agli attori che, giunti alla reggia, reciteranno per lui il dramma della morte di Priamo, per poi inscenare il momento dell’avvelenamento del personaggio del re, suscitando l’ira del re vero e scoperchiando una volta per tutte il vaso di Pandora. Le scale di ferro, dove prima Ofelia e Amleto giocavano ad inseguirsi spensierati, sono ora orride prigioni che puniscono il giovane per essere stato spietatamente onesto con se stesso.
Quella che dovrebbe essere elogiata come una virtù è in realtà la sua colpa, l’aver visto troppo a fondo, l’aver scovato la verità in un castello corrotto che frana nella menzogna e in cui siamo tutti canaglie: “Il tempo è fuori sesto. Maledetto destino essere nato perché quadri ancora”. E in queste parole tanto attuali è racchiusa un po’ la missione della nostra generazione, ossia riportare in sesto qualcosa che è sull’orlo del precipizio, essere pronti a fare la nostra parte, percorrendo strade non battute già da altri. In fondo le scelte offerte ad Amleto non lo riguardano, è chiamato ad attuarle, non vorrebbe compiere crimini, ma solo vivere. Eppure la sua nobiltà è in questo suo esasperato agire sospeso, nel suo costruirsi a vista coma una macchina ad ingranaggi, nel rifiutare le etichette, nell’essere tra i grandi, e i grandi non muoiono e non hanno tempo.
Diana Morea