“Il campo delle pere”, il frutto amaro
“Il campo delle pere” (Voland, 2022, pp. 213, euro 18, Collana Amazzoni, traduzione di Ruska Jorjoliani) è il primo romanzo della scrittrice e regista georgiana Nana Ekvtimishvili.
Alla periferia di Tbilisi nella Georgia postsovietica, in via Kerč, come la città della Crimea affacciata sul Mar Nero, c’è un convitto da molti chiamato la “scuola dei ritardati”. Nato per ragazzi con disabilità intellettiva, è ormai frequentato da orfani e figli di migranti, che vengono cresciuti tra abusi, negligenza e squallore. Tra loro c’è Lela, diciottenne che decide comunque di restare, temprata da esperienze tutt’altro che facili/felici e che, mentre progetta l’omicidio dell’insegnante di storia Vano, sogna un futuro migliore lontano da lì, oltre il campo delle pere, così belle, piene eppure immangiabili, cresciute su un terreno che pare una palude pronta a inghiottirti.
“Ai tempi, quand’era piccola e si raccoglieva sotto le ali dei grandi, non poteva neanche immaginare che darebbe giunto il giorno in cui non avrebbe più avuto paura di nessuno.”
Lela è il cuore pulsante del racconto. Quella che subisce, quella che resta per dare una mano ai più piccoli, quella che si prende la responsabilità dei silenzi, quella che consola.
Attorno a lei bambini e adolescenti, ognuno col proprio carico di dolore. Sullo sfondo, aleggiano i fantasmi degli “eroi”, quelli che il convitto sono riusciti a lasciarlo, e su cui ci si raccontano storie, vere o inventate, per farsi coraggio, per darsi una speranza. E i genitori, quando ci sono, sono apparizioni così fugaci, telefonate così brevi che è impossibile non sentirsi abbandonati.
“I bambini si lasciano prendere dal sentimento dello stare insieme, di far parte di una famiglia inesistente.”
È un microcosmo quello del convitto, con le sue regole, la sua identità, distaccato dal resto del mondo se non per brevi incursioni: una chiamata a casa dei vicini, un matrimonio da organizzare nella grande mensa. Non sono molti i sentimenti positivi che i giovani ospiti hanno l’opportunità di esplorare, se non alcuni momenti di tenerezza tra loro. Eppure, anche quelli sono intrisi in qualche modo di rabbia, di violenza. Mancano esempi e figure che sappiano insegnare altro, dare un’indicazione per il futuro. E quando il futuro sembra arrivare, come per il piccolo Irakli, è difficile crederci, è difficile abbracciarlo, meglio restare attaccati a un brandello di speranza, al sogno di un riorno alla propria famiglia di origine, forse per non incappare in nuove delusioni. Meglio avere a che fare con quelle che già si conoscono. Giovani segnati, forse in modo irreparabile.
E quel campo di pere diventa una metafora amara di qualcosa di bello all’apparenza, ma dal sapore troppo aspro per gustarselo, perché le radici affondano nel marcio e se non le sradichi non vedranno mai luce.
Laura Franchi