I Motus portano a Roma “Tutto brucia”
Si comincia dall’epilogo. Tutto è già stato bruciato. Il fondale che fa da riflesso alle varie sfumature del nero rifugge ogni contestualizzazione. Sul palco regna sovrano un ammasso di cenere, scarti, sacchetti di immondizia a ricordare le rovine di una città ormai distrutta. Verrebbe da chiedersi se è così che finisce il mondo, con questa visione apocalittica. L’ultima opera dei Motus (Enrico Casagrande e Daniela Nicolò) entra come una lama rovente nella riscrittura delle Troiane di Euripide, attraverso la rivisitazione di J.P. Sartre, e fa leva per la drammaturgia di Ilenia Caleo su una ricca documentazione che annovera i testi di Ernesto De Martino, Edoardo Viverois de Castro, NoViolet Bulawayo, Donna Haraway, i principi democratici dell’antica Atene e la lezione di Gino Strada. Un percorso di ricerca stratificato, forse anche troppo per un’agevole lettura, che dalle funeste visioni della tragedia greca in cui Ecuba, Andromaca e Cassandra sono ridotte a bottino di guerra, intercetta le voci dei nuovi schiavi di oggi, i migranti, le madri, i bambini. Non vi è nessuna trama o intreccio, nessuna messinscena del testo tout a court, nessun video o struttura in episodi, ma solo un perpetuo evocare gli spettri del passato.
Il corpo dell’attore è la coincidenza con il proprio concetto di resto, e il resto è ciò che rimane dopo un attraversamento di fantasmi (il grido sinistro di Polissena, le violenze subite da Elena). Risalta la pochezza della scena, è uno spettacolo che lavora partendo dal poco perché la spoliazione mette le attrici nella condizione di tramutare ciò che c’è. Convincente l’uso delle luci al neon, un omaggio al teatro di ricerca degli anni Sessanta e un elemento drammaturgico con cui la danzatrice Stefania Tansini dialoga con grazia. La rappresentazione conserva il suo valore rituale e cerimonioso mediato dalla contemporaneità. Ne sono esempi efficaci le maschere mostruose utilizzate dalla Calderoni, i caschi da mountain bike dall’aspetto animalesco che diventano ora nuovi copricapi, le protesi e le bottigliette di plastica sotto ai piedi, a sostituire i coturni classici. Coinvolgenti le danze vorticose di Tansini che in piena estasi squarcia l’aria con un pesante coltello e un falcetto contadino, come nei riti collettivi di cordoglio ai scomparsi. Anche dal punto di vista sonoro i Motus escludono qualsiasi tipo di imitazione col passato, e pur mantenendo il carattere solenne del testo, ne modificano l’accento, affidando alle musiche di Francesca Morello (R.Y.F) il ruolo del coro che sorregge il lamento di sopraffazione delle donne, il corpo rotto di Ecuba (degno di nota il lavoro condotto sulla vecchiaia e sulla deambulazione di Silvia Calderoni) la parola profetica di Cassandra che con la sua torcia invita a risollevarsi, a danzare, e l’invocazione ai morti di Andromaca. La lingua è triturata, ridotta in latrati di cagna, singulti e singhiozzi. Tre modalità di stare in scena di grande impatto, anche se per ridurre le distanze che qua e là si avvertono tra le attrici, il lavoro necessita ancora del giusto rodaggio che il tempo e le future repliche possono garantire, considerato anche il lungo periodo di isolamento causato dal Covid, in cui lo spettacolo ha avuto la sua gestazione.
Ultimo punto, non per importanza, riguarda la questione politica. Se Sartre sceglie di parlare dell’attualità (ricordiamo che all’epoca in cui riscrive “Le Troiane” aveva sotto gli occhi la guerra dell’Algeria) attraverso l’universalità della tragedia, anche i Motus con la ripresa del tragico puntano l’attenzione sulle vittime del presente, sui senza nome sul fondo del Mediterraneo nero che, allora come oggi, è scena di conquiste dell’Europa coloniale, di guerre e di diaspore. Un lembo di costa attraversata da gente disperata che perde la propria vita pur di scappare dal nemico. Ecco che il corpo diventa allora lo strumento privilegiato per parlare di fragilità, di minoranze o per denunciare ad esempio la situazione delle donne africane che sono trasportate in Europa con l’infido sistema della tratta. A fine spettacolo abbiamo due possibilità di fronte a noi, o lasciarci al ricordo di ciò che brucia, o pensare da dove e come ricominciare. Ecuba-Silvia lascia la scena, resta il vuoto, il buio e la distesa di cenere che fa capolinea a tutto. Ci troviamo di fronte alla consistenza di questi resti, ed è il posto da cui poter ripartire. Al Teatro India di Roma fino al 23 settembre.
Diana Morea