Fedeltà obbligatoria: “Il Paese dei Campanelli” al Coccia di Novara
Novara, Piemonte Orientale. C’è già aria di Lombardia, ma in una cornice molto particolare, già dal punto di vista architettonico: barocca, neoclassica, poi medievale, liberty e, d’improvviso, il dopoguerra. Crocevia del triangolo Torino-Genova-Milano, terra di risaie nonché uno degli ultimi baluardi del Nord Italia in quanto a divisione netta fra città e campagna. Gioiello del suo centro storico è sicuramente, oltre ai palazzi nobiliari, il Teatro Coccia, tra i più storici del Piemonte e indubbiamente il più squisito, con tutto quel rosa cipria e il bianco avorio, i tre ordini di palchetti corinzi e i cigni dorati spiccanti il volo dalle foglie di acanto. Inaugurato da Toscanini nel 1888 con Gli ugonotti di Meyerbeer, ancora oggi il teatro s’impegna a proporre l’opera, la danza, i concerti; e in parallelo l’offerta coinvolge la prosa, il varietà, finanche i comici.
Noi abbiamo avuto il piacere di assistere alla seconda e ultima replica, domenica 1° ottobre, de Il paese dei campanelli, deliziosa operetta in tre atti del barone Carlo Lombardo e Virgilio Ranzato, il quale tra l’altro fu pure l’autore del Rataplan per le camicie nere. Composta e presentata esattamente cent’anni fa (al Lirico di Milano), racconta di una città olandese in cui sulle porte di ogni abitazione ci sarebbe un campanello magico, pronto a squillare in caso di adulterio da parte di almeno uno dei coniugi. La questione si complica quando nel porto approda una nave di marinai pronti a conquistare le signore del luogo, ma anche i mariti si danno da fare, poiché per un comodo equivoco giungono le mogli dei marinai stessi. Scambismo ante litteram, a tutti gli effetti. Il testo è tremendamente irriverente, protagonista la malizia, e tuttavia in parte si contemplano anche alcuni desideri più puri. Non c’è critica sociale, o almeno non è voluta, però lo spettatore più accorto si troverà a meditare oltre la risata. Quella dei campanelli è un’operetta ormai slegata del tutto dalle influenze parigine e viennesi, e che tuttavia volge lo sguardo al mondo, coinvolgendo balli come il tango, il fox-trot, la java e lo shimmy, ma ecco riecheggiare Puccini e il Così fan tutte di Mozart. Alla vigilia del Ventennio fu un successo, e già nel 1929 venne pubblicata una prima edizione discografica, forse per via di quella sua intrinseca leggerezza, figlia di una trama inverosimile, che garantiva sì il divertimento, ma a fronte di un finale alla Butterfly, come scrive Andrea Merli nel saggio introduttivo sul libretto di scena: protagonista, sul calar della storia, è Nela, l’unica che in un sistema di ipocriti si è innamorata per davvero, e ora anela disperata un Hans che intanto è già salpato con la mogliettina. La questione sommersa nella trama è senza dubbio la posizione della donna a cavallo tra Venti e Trenta, dilaniata fra nuove opportunità e nuove repressioni, come spiegava la storica Victoria De Grazia.
La regia è stata affidata ad Alessandro Talevi, il quale è stato capace di attualizzare l’estetica dello spettacolo in modo efficacissimo. Innanzitutto l’Olanda è stata sostituita con una scenografia molto particolare, curata da Anna Bonomelli: siamo in una sala da ballo ma anche nel dehors di un caffè del centro; ci sono i tavolini coi loro campanelli nascosti nelle abat-jour e delle grandi palme blu-verdi, c’è un palchetto per le varie esibizioni nell’esibizione, e mentre su un lato si ergono immobili dei separé alti come il profilo della città stessa, a destra la fiancata della nave incombe su tutti gli abitanti. È come vedere una valle fra due monti: da una parte le sicurezze garantite dall’immobilismo, dall’altra lo spumeggiante fascino della novità e dello scompiglio. Anche i costumi, sempre della Bonomelli, risultano funzionali, poiché coagulano il romanticismo coloniale all’esotismo da charleston: le gonne si accorciano, spuntano piume e animali impagliati, mentre le divise verdoni e le canotte bianche dei marinai inglesi riequilibrano il tutto. C’è festa, c’è confusione, c’è il boom economico con tutte le sue frivolezze in stile Gatsby: i fenicotteri in testa alle ballerine, i lustrini, casqué a iosa, le lampadine al neon; i sorrisi e gli ammiccamenti dei giovani, e le smorfie languide di alcune donne, e poi una zebra… una zebra? Sì, e un gorilla, perché no? Si balla, e tanto: Annamaria Bruzzese si è occupata delle coreografie e anche grazie a lei lo spettacolo fiorisce su se stesso. Talevi è riuscito a creare un tableau vivant che celebra da una parte l’effervescenza caleidoscopica dell’epoca in cui quest’opera fu scritta e composta, e che però non tralascia il valore dei sentimenti, per quanto siano pochissimi i personaggi veramente dediti all’emozione.
Impeccabili su ogni fronte, gli interpreti, diretti dal maestro Roberto Gianola: prima fra tutte Maritina Tampakopulos nei panni della fulgida Bonbon, e con lei Francesca Sassu nei panni di Nela. Con loro Silvia Regazzo (Ethel), Federico Vazzola (Pomerania), Norman Reinhardt (Hans), Francesco Tuppo (La Gaffe), Stefano Bresciani (Attanasio Prot), Fabio Rossini (Tarquinio Brut), Pasquale Buonarota (Basilio Blum), Leonardo Alberto Moreno (Tom).
Davide Maria Azzarello