Euridice: la danza cosmica di un corpo clessidra
“Euridice non può tornare” è un poema coreografico della dimenticanza con voce e testo di Marcello Sambati. La figura mitologica di Euridice incanta e sospende, donna non più raggiungibile, eppure ancora capace di provocare uno stordimento che solo l’esperienza fisica del limite o lo struggimento per una sensazione possono indurre nell’animo umano.
La danza di Alessandra Cristiani ha tenuto per un’ora tutti col fiato sospeso, sabato 3 Settembre alle ore 20.30, in occasione dell’apertura serale straordinaria del Museo Nazionale Etrusco di Roma. Nei giardini di Villa Giulia neppure la paura per un temporale imminente ha potuto arrestare la performance, curata dall’associazione di promozione sociale Officina delle Culture. Anzi, il bagliore rapsodico dei fulmini, ben visibili a cielo aperto, ha reso più suggestiva l’opera, che ripercorre uno dei miti sull’oltretomba e sull’amore più antichi e più presenti nell’arte greca, ma anche etrusca, rappresentato sulla ceramica, nei dipinti, nei bassorilievi e nella statuaria. Orfeo, dopo la morte della sua amata, la raggiunge negli inferi. Euridice si spegne, dopo essere stata importunata da un allevatore di api di nome Aristeo, morsa da un serpente che occupava le rive del fiume. Per convincere il re e la regina dell’Ade, Plutone e Proserpina, Orfeo canta. Un canto, il suo, che commuove tutti. Stringe così un patto con i due dei: potrà ottenere indietro la sua amata solo se durante il cammino non si volterà indietro per guardarla. Quando si ha la fortunata occasione di assistere ad un lavoro sul mito come questo, si coglie tutta la rarità del momento, scaturita dall’incessante tentativo dei performer di applicare un principio che ha la sua dimora nella storia giapponese della danza Butoh, ossia quello dell’attesa. In tal senso, una figura cara ad entrambi gli artisti è quella del danzatore giapponese Masaki Iwana.
Attendere la fisicità che esiste dentro di sé, sostare nel corpo, scontare la vita sulla propria pelle, per ritrovare i passi perduti prima del grande silenzio. Ecco il senso profondo del viaggio che compirà Euridice – Alessandra. Una vera “cerimonia di energia poetica” in cui il radicamento nel corpo è anche un radicamento spirituale, attraverso il quale è possibile accedere alle proprie risorse ineffabili e tessere azioni di una trama invisibile. Esporre il corpo nella sua trasparenza e nella sua oscurità, come atto politico, determina questo viaggio rischioso e periglioso sui bordi dell’esserci e del non esserci. Euridice, pura e luminosa nella sua tunica bianca, è un corpo disanimato in attesa di essere abitato dal soffio del teatro, dall’alito creativo della poesia, del suono, del gesto. Parole impedite che si inchiodano al corpo, e al loro posto restano brividi di carne, vento e sangue. Ferite avvelenate e mai comunicate riempiono il suo vuoto d’amore. Ha in sé tutta l’urgenza di dover entrare in ascolto con il luogo che la ospita Euridice. Mentre la voce profonda e sapiente di Sambati fa da contraltare a questa danza dell’oblio. Fatale l’incontro tra i due sul finale, che illuminati solo da due fari, uno dietro l’altro, di spalle al pubblico, si ricongiungono e come “il sale che resta di due piccole onde, non sapranno mai di esserci state”.
Diana Morea