“ANATOMIA e DINAMICA di un TERRITORIO” – Dialogo con Giorgio Barrera
“Anatomia e Dinamica di un Territorio” è un lavoro editoriale curato da Giorgio Barrera, finito di stampare nel mese di luglio 2021 e pubblicato dalla casa Editrice Quinlan. Rappresenta il coinvolgente e meditato progetto avviato nel settembre 2020 e realizzato dagli studenti del CFP Bauer di Milano. I campus, che si svolgeranno fino al 2026, sono volti alla produzione di uno studio fotografico nel Cadore, alla scoperta del territorio della Valle del Boite, tra Pieve di Cadore e Cortina d’Ampezzo, ovvero nel tratto della Statale 51 di Alemagna oggetto di trasformazioni alla viabilità legate all’Olimpiade Milano-Cortina 2026. I seminari, che hanno l’intento di documentare i processi a livello ambientale e paesaggistico, sociale e antropico che queste opere innescheranno in seno alle comunità locali, si realizzano grazie a un accordo tra il CFP Bauer di Milano, l’Università degli Studi di Padova (Dipartimento Tesaf), il Comune di San Vito di Cadore e Dolomiti Contemporanee. Ho fatto qualche domanda a Giorgio Barrera, per saperne di più.
Anatomia e Dinamica di un territorio: “L’approfondimento delle caratteristiche dei luoghi, in cerca di una possibile identità”. Vorrei chiederti se alla luce di questa osservazione, questi sono territori che non hanno già un’identità? È un’indagine che vuole dare identità a questi luoghi oppure si tratta di una ricerca alla scoperta di caratteristiche già presenti e forti, per cui la finalità di questo seminario sarebbe quella di rimarcarne i connotati?
Certo, ovviamente, hanno la loro identità, un luogo senza identità non credo possa esistere, anche quando non sia abitato. Nel testo, Roberta Valtorta si riferisce alla parola anatomia che collega ad identità, creando un binomio che rimanda all’approfondimento delle cose. Un’indagine normalmente tende a valutare diversi aspetti di una materia e quindi questo lavoro, che è anche collettivo e perciò implica una molteplicità di pensieri, vuole proprio fare ciò. Il territorio si presenta in molti modi e stratificazioni, composto di oggetti che rappresentano la storicità e il divenire. Quello che certamente cerchiamo di non realizzare è l’immagine stereotipata (anche questo tipo di immagini hanno ovviamente rilevanza nell’ambito della cultura visuale, ma sarebbe un approccio di tipo differente) perché porterebbe in un ambito fine a sé stesso. Quindi, più che rimarcare, direi che si tratta di una ricerca che tende a intessere una relazione con il territorio al fine di realizzare progetti fotografici che con esso possano dialogare. Solo così si riesce ad approfondire, entrare in sintonia e capire le varie tonalità, sfumature e dettagli che fanno sì che ognuno mostri la propria identità.
“Anatomia e Dinamica di un territorio” è un titolo che sollecita il pensiero. Qual è il senso dello stesso e perché si è scelto di rappresentare visivamente quello che di dinamico e modificativo avverrà su questo territorio e che, di fatto, è ancora in itinere?
Anatomia, come prima accennato, ci porta a pensare e a vedere in sezione, a guardare dentro le cose. Dinamica è una parola che introduce qualcosa di ancor più vasto e potente, il tempo. È una dimensione questa che ci è ancora piuttosto misteriosa. La fotografia, come tutte le immagini ottiche nate dopo di lei, è inequivocabilmente legata al tempo. Questo libro rappresenta una sorta di grado zero del progetto, l’inizio che legge lo stato di fatto ad un dato momento. Tutto il libro è pervaso da un senso di attesa e di indagine, direi di scrutinio dei luoghi che continuano la loro espressione ignari del fatto che a breve saranno altro e contribuiranno a dare al territorio un nuovo volto. Questo volto però nei suoi tratti generali rimarrà tale per un periodo di tempo più o meno lungo, ma in quegli stessi tratti non sarà mai uguale a se stesso. Allora dinamica, in questo senso, è la direzione che l’uomo ha dato al suo territorio in relazione all’ambiente naturale. Le ragioni della scelta di rappresentare ciò che è dinamico sono diverse: è uno studio del territorio che mette alla prova lo strumento fotografico con la realtà in divenire ed è, allo stesso tempo, un potente strumento didattico.
Si può parlare di Performance anziché di Lavoro quale frutto di un seminario accademico? Te lo chiedo perché il paesaggio che gli studenti si sono trovati davanti si compone sicuramente di diversi sguardi e soprattutto dell’esperienza fisica del corpo che non è un qualcosa di statico, ma muta perennemente, lasciando dei segni fisici nello spazio e nel tempo anche di queste comunità.
La tua domanda mi fa pensare alla quantistica, a come tutto nel mondo sia, per l’essere, un’esperienza di dare e avere, e viceversa. L’aspetto performativo che suggerisci è molto bello ed intrigante perché crea un’immagine ulteriore su questo lavoro collettivo. Prima che iniziassero i seminari mi sono immaginato i ragazzi immergersi nel territorio e spostarsi guidati dai loro sguardi liberi ed emotivi, o guidati da concetti pre-esistenti nati in relazione alla ragione per cui eravamo lì. L’intenzione era quella di creare un corpo di lavoro collettivo condiviso che avesse almeno una duplice finalità: uno sviluppo artistico personale e un’utilità per il territorio. In questo intento siamo riusciti. Ogni fine giornata ci siamo trovati a fare critica del lavoro di ognuno ascoltando le diverse esperienze. Ciò che ognuno di loro ha svolto è un’azione sia fisica sia intellettuale. L’atto performativo di cui parli ha di certo a che vedere con la geografia e la geometria linee, traiettorie, passaggi di pensieri e di corpi che si spostano nel territorio per porsi a confronto. Ciò che questi seminari lasciano alle comunità sono ovviamente le fotografie e le relazioni che si intessono, quest’ultima è allo stesso tempo un’ulteriore finalità e una vera e propria necessità.
È possibile definire Paesaggio, una identità in movimento? Nel testo scrivi che “il paesaggio è un luogo di creazione e la creatività è una qualità delle attività umane”. Come si può parlare, a questo punto, di documentazione del territorio, dal momento che ogni rappresentazione è relativa e quindi non può essere il territorio?
Probabilmente lo possiamo definire anche così, ma direi anche che non esiste niente di statico, anche una roccia, sebbene ci appaia immobile possiede un suo movimento, un suo tempo. Una rappresentazione è inevitabilmente una forma di sintesi perché normalmente si interessa di compattare un fatto, un evento o un fenomeno e, perché trasferisce o quantomeno porta con sé concetti e significati, è sempre parziale rispetto al divenire. Ciò avviene per forza di cose, perché l’oggetto della rappresentazione si trova in un luogo o in un tempo diverso da quello in cui viene osservato o fotografato. Creatività, in quel punto del testo, si riferisce al suo senso più ampio, all’operare per dare forma, non solo dunque a ciò che normalmente le si attribuisce, ovvero una pratica artistica intellettuale. Quello a cui io mi riferisco è un discorso che riguarda il nostro rapporto con le immagini. Quindi, se il paesaggio è un luogo di creazione, perché in esso, oltre a quella naturale, si esplicita la creatività, cioè l’operosità delle varie generazioni dei suoi abitanti, l’atto del fotografare documenta o rappresenta proprio questa creatività che, a sua volta, opportunamente esprime l’identità del luogo. In altre parole, l’identità culturale che si mostra nel paesaggio (umano, naturalistico etc. etc.) è la manifestazione di un agire creativo che diviene oggetto di una rappresentazione, in questo caso fotografica e, a sua volta, creativa. Sono quindi gli studenti-fotografi che creano così un ulteriore paesaggio, fatto di immagini fotografiche, che si va ad aggiungere, facendone parte a tutti gli effetti, a quello tridimensionale naturale o umano che sia, e va ad intessere relazioni con esso. Il lavoro collettivo svolto non è quindi qualcosa che sta per sé ma è parte integrante di quel territorio. In questo senso la rappresentazione può divenire il territorio.
Dobbiamo accettare il dato che non avremo mai un Paesaggio inteso come Landschaft, nel senso etimologico del termine tedesco. Non esiste paesaggio naturale ma lo stesso è il risultato – in termini di azione/reazione – di una creazione culturale.
Concordi sul fatto che forse – e qui azzardo una mia definizione – siamo in presenza di un Paesaggio Politico, in cui far rientrare l’insieme delle attività umane che insistono nel e sul territorio e che come nel pensiero hegeliano le cose, in natura, non sono “prodotte per noi” ma in “funzione di noi”, e che la parola Ecosistema, in fondo voglia solo indicare l’artificio ricercato e creato sempre dall’uomo per “utilizzare” la natura stessa?
Secondo me in queste tue parole si celano cose ulteriori e complesse. Concordo sul fatto che il paesaggio sia soprattutto un concetto o un’immagine. Ma quello su cui mi voglio concentrare nel rispondere a questa domanda sono le citazioni di Hegel. Ciò che intende Hegel, secondo le mie conoscenze, è che le cose messeci a disposizione dal Creatore non sono prodotte per noi nel senso che ne possiamo solo profittare ma, viceversa, sono in funzione di noi perché si possa farne conoscenza, ovvero prenderne coscienza per mezzo dei sensi che abbiamo a disposizione. La figura dell’uomo nell’idealismo è quella di un essere che interagisce e intellige le cose del mondo per aumentare la consapevolezza, procedendo così verso il divino. Se così è, si capisce bene che questa è un’indicazione opposta alle modalità predatorie con le quali l’umano si rapporta col mondo naturale tutto. Questo modo di relazionarsi col pianeta Terra, a mio avviso, discende da pratiche nominaliste che vedono nelle cose del mondo solo un’esperienza immediatamente accessibile e non anche un di più di cui sentirsi parte. La rigenerazione vera e propria, a mio modo di vedere, è presente proprio nel sentirsi parte di qualcosa che può essere definito ecosistema, habitat o territorio. Questi seminari, infatti, oltre che per gli sforzi realizzati dal Bauer (scuola di Afol Metropolitana, Milano) sono stati infatti resi possibili dalla presenza dagli aiuti del Centro Studi per l’ambiente alpino (TeSAF) dell’Università di Padova, presente nel territorio da oltre 50 anni e specializzato nella ricerca scientifica legata al territorio, del centro sperimentale ideativo Progettoborca, piattaforma di rigenerazione dell’ex Villaggio Eni di Corte di Cadore e del centro di arte contemporanea Dolomiti Contemporanee diretto da Gianluca D’Incà Levis che si occupa di questo territorio da oltre dieci anni.
“Il paesaggio va guardato in tutta la sua complessità, nelle relazioni, negli intrecci”. Quindi ti chiedo se in questo procedere, il punto di vista adottato dagli studenti ha tenuto conto del Paesaggio sonoro, come Fonosfera, non trascurabile nella sua definizione dal momento che è l’ambiente acustico in cui viviamo e verso il quale dimostriamo una certa superficialità. Le voci degli animali, il movimento degli alberi, sono voci piene di significato e rappresentative – oltre ad essere legate a cicli vitali e ancestrali – di un ambiente in termini di tempo e spazio.
Intreccio è una parola che, sia nella sua sonorità sia nel significato che assume in narratologia, a me piace molto. Nell’intreccio, spesso, c’è qualcosa da risolvere, o che aspetta di essere risolto. Sì, c’è stata un’attenzione particolare al paesaggio sonoro. In particolare, il fatto di essere lì a leggere il territorio in attesa delle trasformazioni, ha canalizzato la nostra attenzione sull’invisibilità, sulla ricerca di simboli che potessero evocare le modificazioni che il territorio attendeva. Il visibile è una parte dell’(in)visibile e le sonorità, di certo, fanno parte di quest’ultimo mondo anche se, con un nesso logico, possiamo riportarle nell’ambito della causalità e quindi anche della visibilità. In questa direzione è necessario dunque un incremento di percezione dove l’udito diviene oltremodo importante. Il fiume Boite, così come la SS51 di Alemagna, sono emittenti di sonorità continue, entrambe sono vie di comunicazione, i prati e i luoghi in valle spesso sono silenziosi e talvolta, come i boschi, sono carichi di suoni la cui provenienza incerta crea indeterminatezza. Ma ci sono anche il campanile di una chiesa, la montagna rocciosa o il volto di una persona, il suono è in potenza nelle fotografie e questa sua latenza, se ben individuata ed espressa, permette alla fotografia di rivivere fino a quando quel suono può risuonare nell’immaginario o nel ricordo di chi la guarda.
Giusi Bonomo