Al ritmo di un cuore che scalcia, la performance di Antonio Marras all’Elfo di Milano
Antonio Marras è una tra le personalità più autenticamente e artisticamente multiformi che si possa incontrare. La sua arte è legata dai più alla declinazione di stilista, ma avvicinandosi e mettendo meglio a fuoco i contorni del disegnatore, pittore, scultore, si scopre un mondo visivo ed un’estetica peculiari. Echi della storia dell’arte del ‘900 (dal più esplicito legame con Carol Rama e Maria Lai, a suggestioni che spaziano dall’Arte Povera a Louise Bourgeois, a Christian Boltanski) uniti ad una forte cifra autobiografica, sia nel continuo riferimento alla cultura sarda, sua terra d’origine, sia nello scandagliare senza sosta il proprio inconscio. Le figure al centro delle sue opere, irrequiete, fatte di fili sottili, contorni sfumati, dita allungate, tocchi di smalto scarlatto, volti appena abbozzati che si dissolvono (o concretizzano) in espressioni indefinibili, sul confine tra passione e dolore, si sono fatte corpi vivi e agiti nel primo esperimento performativo e teatrale ideato e diretto dallo stesso Antonio Marras, “Mio cuore io sto soffrendo. Cosa posso fare per te?”. Dopo il debutto nel novembre 2017, e un percorso di progressiva e sempre maggior definizione che ha visto in ogni tappa sensibili variazioni sceniche e ospiti diversi tra gli interpreti, lo spettacolo-performance ha aperto la stagione 2019/2020 del Teatro Elfo Puccini di Milano nelle serate del 19 e 20 settembre.
Il titolo della performance richiama la celebre canzone di Rita Pavone, ma sposta il focus sull’Io che soffre. Col loro battito insistente, le prime note del brano scandiscono l’avvicendarsi dei diversi quadri scenici affidati a performers e attori (coreografie curate da Marco Angelilli), che prendono forma dalla penombra del palco o della platea, bagnati di luce spesso calda, nello stesso modo con cui i ricordi infrangono la superficie della memoria; poggiati delicatamente su piccoli banchi di scuola, dieci cuori sono custoditi da fragili teche di cristallo che portano con sé l’aura di statuine sacre che forse in passato hanno racchiuso. La struttura drammaturgica, giocando con citazioni e richiami più o meno pop, è fondata su un’oscillazione ben calibrata tra azioni puramente fisiche, momenti grotteschi in cui la risata si mescola alla tensione costante, e spazi di riflessione più intima, parentesi dedicate a parole intessute sui corpi (vengono cuciti insieme brani da Italo Calvino, William Shakespeare, Dino Buzzati… ). Intensi e lirici, in questo senso, tanto il dialogo tra Simonetta Gianfelici e Giovanni Franzoni quanto quello della coppia composta da Ferdinando Bruni e Marco Vergani, colti in un confronto a più riprese, contrapposti sul ring finale della loro relazione. Si parla di solitudini, dell’ascoltare se stessi o perdersi nell’altro, di sguardi desiderati e mai ricevuti, di contatto perduto, di felicità rievocata, amore che è stato, separazioni sofferte, ricordi di corpi nudi e di mani che però si sfocano, bisogna forse fissarli in una fotografia. Rimane sospesa una domanda “Riusciremo mai ad essere felici?”. Le stesse sensazioni vengono suscitate dalla coreografia realizzata dal danzaterapeuta Vincenzo Puxeddu con il danzatore Francesco Marilungo. Una lotta ancestrale, uno scambio intenso tra corpi che sembrano amarsi ed essersi amati, completati, amplificati a vicenda.
Antonio Marras porta sulla scena un flusso di coscienza attorno alle affezioni del cuore, ai ricordi d’infanzia coi loro traumi (il cappello/maschera da asino imposto sul capo di Giuseppe Sartori, dopo l’umiliante interrogazione condotta da una Maestra con più follia che metodo, interpretata da Federica Fracassi, cattivissima, esilarante), alle pulsioni di vendetta, alla religiosità come esibizione, alle relazioni vissute al ritmo di un cuore che scalcia strattonato tra godimento e violenza, amore e distruzione. Nel coro finale, mentre i cuori in scena vengono liberati dalle loro campane di vetro, aggrediti, dilaniati, contesi tra le coppie di performer, il brano del titolo esplode nell’urlo di quegli uomini e donne sul palco: “Sempre di più tu, tu, tu, tu soffrirai / Oh mio povero cuor, oh mio povero cuor…”.
Mariangela Berardi