“Una sinfonia per l’abisso” come omaggio a Moby Dick
Una grande bacinella di plastica azzurra ricolma d’acqua, di quelle che la mamma usa per raccogliere la biancheria di casa, e che in uno dei tanti mesi estivi può diventare la fucina di avventure fantastiche per un bambino dalla fervida immaginazione. È questo uno dei ricordi d’infanzia più potenti di Roberto Magnani, la porta diretta per cercare nell’opera dell’attore la sua persona, una cosmogonia del suo universo acquatico, e da cui ha tratto in gran parte origine: “Siamo tutti Cannibali. Sinfonia per l’abisso”, spettacolo in scena all’Angelo Mai di Roma venerdì 8 e sabato 9 aprile.
Folgorato in giovane età dall’incontro con Melville e il suo romanzo “Moby Dick”, Magnani ripropone, attraverso un raffinato processo sonoro e un corpo scenico di grande impatto, l’affastellarsi di voci ed etnie del Pequod, la baleniera capitanata dall’inflessibile Achab. Con un lungo cappotto e alti stivali, narra la caccia fisica alla balene, e pian piano cominciamo ad intravedere la faccia di quell’America, già in via di lacerazione, nell’infuocato dibattito sull’atrocità della schiavitù, apertosi sin dai primi anni quaranta dell’Ottocento. Attraverso un procedimento di riduzione del romanzo ad episodi, quella rievocata dalle parole di Magnani è una nave riemersa dalle ceneri del passato, dove incontriamo i suoi protagonisti, Stubb con la predica agli squali e Palla di neve. E poi, Ismaele, narratore umile e assennato che raccoglie in sé il messaggio più profondo del viaggio, il naturale e irresistibile dirigersi verso l’acqua, verso l’indefinito desiderio di lontananza. E per questo ci chiede di credere al proprio racconto, perché come unica certezza egli possiede solo quella di nominare le cose. L’atmosfera oscura e misteriosa degli abissi inesplorati è ben rappresentata dalla scenografia con i tre totem di ferro, sui quali sono disegnate le pitture rupestri di Artolini.
In questa baraonda di voci e di visioni, sapientemente domata dalla regia di Andrea Veneri, il contrabbasso del sopraffino Giacomo Piermatti amplifica e riverbera i piani sonori, ora attraverso ritardi, ora ricorrendo a ritmi più febbrili, potenziando l’espressività del racconto e conferendo assoluta credibilità alle immagini degli scricchiolii del ponte sotto i piedi dell’equipaggio, del furioso sbattere di code degli squali, o ancora l’essere inafferrabile di Moby Dick che affiora all’orizzonte con uno sbuffo, per poi calarsi nuovamente, in acque che sembrano infinite, che tutto celano. La balena bianca è il trascendente che manifesta per un istante la sua ambiguità incomprensibile. A rendere visibile l’invisibile è anche il ricorso alla traduzione di Pavese, funzionale per la musica della lingua non databile, sospesa nel tempo, come quando la carne affiora con verità allo sguardo degli altri, come può esserlo la grande poesia. Ma il grande tema su cui ci invita a riflettere questo testo è l’andare a fondo nella ricerca del chi sono io. L’abisso è connaturato in noi, è’ il nostro “monstrum”, vera croce e delizia, perché “le cose più meravigliose sono sempre quelle inesprimibili, le memorie profonde non concedono epitaffi”. E l’acqua è la parte profonda, più oscura, più terribile del mondo.
Noi stessi siamo fatti d’acqua. Se non accettiamo questa nostra parte fondamentale, quella più nascosta, non ci può essere vera salvezza. Come è accaduto a Narciso che, accecato dalla totale brama della conoscenza, “non potendo stringere l’immagine tormentosa e soave che vedeva nella fonte, vi si tuffò e annegò. Ma quella stessa immagine noi la vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. Essa è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita”.
Diana Morea
Fotografia di Marco Parollo