Torino: l’ultimo dramma di Ibsen al Carignano
Torino, Teatro Carignano. È la replica del 9 dicembre di “Spettri”, l’ultima tragedia di Henrik Ibsen, scritta peraltro fra Roma e Sorrento, qui adattata da Fausto Paradivino per la regia del lituano Rimas Tuminas. Il teatro non è pienissimo, ma c’è il ponte e le repliche son tante: dal 6 all’11 dicembre. Un’occasione inconsueta, curiosa: la trama è un intrigo familiare nella desolazione della Norvegia rurale ottocentesca, il tema vero (che prima rimane celato ma intanto viene comunque citato dalla regia) è l’incesto. Audacia?
Il primo strumento, grazie al quale lo spettatore entra nello spettacolo, è la scena di Adomas Jacovskis (che ha curato anche i costumi): impeccabile, ortogonale, algida. Un’eleganza scandinava, buia, dove le figure appaiono deboli, come i fiori quando lo sciogliersi della brina li intorpidisce, li rende caduchi. Una colonna bianca ed una nera, vagamente asimmetriche, delimitano lo spazio assieme ad alcune travi orizzontali: una composizione di Mondrian, la faccia di un poligono, Flatlandia. La macchina del fumo non si ferma mai, la nebbia entra in casa. Le sedie alle pareti hanno lo schienale rigido, e sono tutte lontane fra loro. Il lampadario lo vedi su Architectural Digest.
Si parte: un urlo squarcia la quiete, una fanciulla è al centro del palco e cerca di riunire i frammenti di una brocca. È la Regine Engstrand di Eleonora Panizzo. Entra un uomo: zoppica, è anziano, stanco, malato forse? È Giancarlo Previati nei panni di Jacob, il padre di Regine, e vuole aprire un’osteria per marinai giù al porto. Un posto per capitani, mica per mozzi. La regia segue il dipanarsi centellinato e meticoloso della trama. Regine discute col pastore Manders, il pretucolo amico della padrona di casa, qui interpretato da Fabio Sartor, che restituisce al pubblico una perpetua più che un parroco (ghermendo dunque in pieno il sottotesto di Ibsen). Raffinatezza decadente, soggiunge l’unica altra lei, forse la più ingombrante, Helene Alving: grazie alla splendida Andrea Jonasson, la signora Alving è greve quanto fatata, una creatura di dolore, contraddizione, rimpianti, impotenza. Infine, Osvald, il figlio di Helene: schivo, diffidente, cinico, non facile da impersonare, ma Gianluca Merolli dimostra di saperlo gestire. Osvald dice che papà gli ha fatto fumare la pipa quando aveva quattro anni. Sarà vero? Sua madre nega, l’imputato è morto. Sogni o ricordi? Il pubblico lo sa: il misfatto al centro dell’opera è chiaramente legato a lui, il compianto marito della signora. D’altronde son tutti lì per un motivo, persino Osvald è venuto apposta da Parigi: l’orfanotrofio verrà intitolato ad Alving senior. Lo hanno mandato lì a studiare, ora è un artista. La madre gli dice di non fumare mentre si accende una sigaretta. Subito s’instaura una logica di confronti: Parigi e lo stereotipo bohémien contro la Norvegia, e più in generale la borghesia tutta, che nel 1881, quando Ibsen scrive, era già fallita in termini di credibilità. Per esempio, spiega Osvald, una famiglia può instaurarsi tra amici, possono esserci due madri, due padri. Il pastore inorridisce. Tutti tornano sempre a discutere del grande assente: si scopre che era alcolizzato, fedifrago. Ha avuto una figlia con la cameriera, la quale peraltro (spoiler) sposò l’umile Jacob, falegname che sogna di diventare oste. Helene si adopera per creare nella gente il ricordo di un uomo encomiabile: non è innocente, ma non vive nel nostro presente. È ammaliante sentirla domandarsi se sopravvivere sia egoismo: insabbiare, omettere, mentire.
Gli spettri non sono solo i fantasmi del passato, ma pure quelle antiche convenzioni sbagliate che causano dolore alle persone. Perseguitano quasi tutti i personaggi: Helene, Jacob, Regine. Osvald è profondamente depresso: emicrania, stanchezza cronica, non riesce a dipingere. Beve. Un neurologo gli ha diagnosticato il rammollimento cerebrale. La conoscenza di Ibsen comprendeva anche quelle teorie naturaliste secondo cui le dipendenze e le devianze erano ereditarie. Vedi Zola e affini. E dunque se il padre era dissoluto, il figlio correva un rischio. Poi in sottofondo qualcosa di bello sembra esserci: Osvald e Regine si sono innamorati, ma quando scoprirà chi è davvero la ragazza scapperà senza mai fare ritorno. Non ci sono vincitori. Questa trasposizione di Spettri risplende di una cupezza atavica, che raramente si incontra in una forma tanto greve eppure scorrevole e accattivante. Come in un thriller privato in cui i personaggi costruiscono il tempo: passato, presente e futuro s’intrecciano, ma la verità rimane a galleggiare fra tutti loro, invisibile ai più. Il regista è stato molto netto nel rendere le dimensioni emotive: talvolta il cast o parte di esso si blocca, assorto nella rimembranza, nelle bugie, nei sensi di colpa. Il finale è esteticamente appassionante: Helene diventa una Madonna quando Osvald le pone uno scialle sul capo. Deve dare la vita per suo figlio? La morfina c’è. Che bella giornata, convengono. Lui: Sento il buio. Lei: Eh sì, c’è tanto buio qui. Sipario.
Davide Maria Azzarello