Quando il teatro scioglie l’oblio – “Tango del calcio di rigore” di Giorgio Gallione
“Quel Mundial non bisogna festeggiarlo, bisogna ricordarlo”.
A un anno dal debutto, è andato in scena a Torino, sul palco del Teatro Colosseo, “Tango del calcio di rigore”, produzione del Teatro Nazionale di Genova per la regia di Giorgio Gallione. Lo spettacolo nasce ancora una volta dall’intesa con Neri Marcorè, un sodalizio sempre fecondo di risultati preziosi, nella loro attenta ricerca per un teatro civile che possa parlare con immediatezza della e alla contemporaneità.
Un tango che è passione, coinvolgimento e seduzione, ma anche tango straziante, tango di dolore in un mondo che preferisce l’indifferenza. Tango che rivela le due facce di una stessa realtà. Buenos Aires, Estadio Monumental, 25 giugno 1978: Argentina e Paesi Bassi giocano la finale dei Mondiali di calcio, violenta e controversa, programmaticamente vinta dalla squadra di casa. Un paese sull’orlo del collasso, devastato da una dittatura militare che fa confluire tutte le proprie energie nell’organizzazione di un evento capace come pochi di rafforzare l’immagine e il potere del regime. Sugli spalti c’è anche il nostro piduista Licio Gelli, fatale testimonianza degli interessi occidentali in Sudamerica. Quella finale consegna il trofeo “nelle mani insanguinate” di Jorge Videla, mentre “la festa copre le urla dei prigionieri”, dei desaparecidos, torturati nei campi di concentramento clandestini e poi lanciati in mare per cancellare ogni traccia della loro esistenza; mentre in Plaza de Mayo le madri di quella generazione di figli cancellata brutalmente, morti per delle idee, manifestano chiedendo giustizia, unite in cerchio, con i panni bianchi dei loro bambini sul capo.
“Il mondo del calcio ha scelto il silenzio, ha imposto l’oblio”
La drammaturgia di Gallione, quasi a voler porre un riparo attraverso l’arte e il teatro alla colpa di quel prolungato e scandaloso silenzio, sceglie dunque come nucleo centrale l’Argentina e il periodo “tragicamente ridicolo” del Mundial ’78, ma come sguardo adotta quello di un bambino, tifoso sognatore di allora e adulto di oggi, che con maggior consapevolezza guarda al suo paese e a quello che ha vissuto quarant’anni fa. La cronaca e la politica si alternano alla favola, alla poesia, alla speranza, nelle moltissime storie di calcio che dal nucleo si dipartono, in un connubio di canzoni, note e parole (adattamenti e composizioni originali di Paolo Silvestri), in quel teatro di narrazione musicale così tipico del regista genovese. La voce delle Madri – ancora capace di cantare “Gracias a la vida que me ha dado tanto / Me ha dado la risa y me ha dado el llanto…” – si alterna ai meravigliosi racconti di Fùtbol di Osvaldo Soriano; la storia del centrocampista cileno Francisco Valdés che non ha avuto il coraggio di alzare la voce contro la dittatura di Pinochet, o di Álvaro Ortega, arbitro morto per un fuorigioco, assassinato dai sicari di Escobar per aver annullato un gol all’Independiente Medellin, convivono come in un mosaico con la leggenda del Piva, calciatore portentoso inventato da Stefano Benni.
Si mostra quindi il calcio per quello che è cominciato a diventare in quegli anni ’70, “meccanismo di alienazione, narcotico sociale, oppiaceo per le masse”, catalizzatore di interessi economici e politici che gettano su di esso ombre vischiose e indelebili (non si risparmia una citazione di Brasile 2014), ma si conserva la speranza nel valore dello spirito profondo dello sport, quello pulito dei sogni di bambini e bambine, nell’immagine del calcio come divertimento, magia e favola assurda e iperbolica, che porta il sapore di quella felicità particolare che nasce alla sola vista di un pallone. Che spinge a parare il rigore più lungo del mondo, per ottenere un bacio dalla propria amata. Quella felicità che porta una ragazza a fingersi maschio per poter giocare da attaccante nella squadra del paese. Storia vera e folgorante.
A condurre la danza ed incarnare personaggi, temi, emozioni, con assoluta maestria e sensibilità, Neri Marcorè, Ugo Dighero e Rosanna Naddeo, storiche presenze nel teatro del regista, perfettamente a proprio agio nell’impianto drammaturgico, affiancati dai giovani Fabrizio Costella e Alessandro Pizzuto, che entrano nel gioco corale con piglio, energia e freschezza che non si lasciano dimenticare.
Di sé, e dei genovesi, Gallione ha detto “Siamo un po’ aspri: per noi la comicità è il tragico visto di spalle” (1). Ci sembra una fotografia impeccabile dell’altalena di emozioni cui ogni volta ci mette di fronte.
Mariangela Berardi
1 – Il regista Gallione: «Il teatro è presidio», intervista di Angela Calvini, Avvenire, 10/01/2017.