MARIA LAI – IL FILO E L’INFINITO a Palazzo Pitti
C’è una leggenda a Ulassai tra i monti dell’Ogliastra, racconta di una bimba che sfugge al crollo di una grotta dove si era rifugiata per ripararsi da un temporale perché lascia quel riparo improvvisato per inseguire un nastro azzurro che si alza nel cielo. Con la memoria di questa leggenda che potrebbe avere come morale l’arte che salva la vita, quando all’inizio degli anni ‘80 il sindaco di Ulassai decide di far costruire un monumento ai caduti di tutte le guerre, Maria Lai espone la sua idea di voler realizzare un monumento per i vivi e non per i morti e con la partecipazione di tutti gli abitanti della piccola cittadina, con il chiaro intento di restituire qualcosa al luogo di origine e con la convinzione che l’arte deve servire a unire e mai a dividere, viene passato un lungo nastro azzurro a legare ogni casa, ogni battente, un lungo nastro azzurro di quasi trenta chilometri che passando tra le abitazioni unisce non solo le case, ma connette il passato al presente, portandone poi il capo in cima al Monte Gedili.
La leggenda dunque diventava metafora della possibilità di inventare nuovi mondi, nuovi modi di vedere, nuovi modi di pensare. Legarsi alla montagna è il capolavoro più noto di Maria Lai, anche se al momento molti la scambiarono solo per una festa paesana. Fu molto più tardi che Alessandra Piolselli seppe dare ad essa il giusto valore identificandola come lo spartiacque dell’arte contemporanea poiché per la prima volta l’artista e l’opera d’arte risiedono nella figura dello spettatore, si parla dunque con una definizione più che azzeccata di arte relazionale.
Maria Lai è senza dubbio una delle artiste più eclettiche dell’ultimo secolo, nonostante sia vissuta in un momento non certo facile per le donne, minuta nel fisico ma caparbia, testarda fu l’unica donna a frequentare il corso di scultura dell’accademia di belle arti di Roma sotto la guida di Arturo Martini. Nei suoi lavori usa tecniche e materiali diversi rubati alla quotidianità. Dall’osservazione e dal ricordo della nonna che, nel rammendare le lenzuola, sembrava con il filo scrivere fiabe sulla tela, nascono i libri di stoffa di Maria Lai dove la scrittura classica e scolastica si trasforma in scrittura asemantica, capace soprattutto nel filato d’oro di trasmettere infinite emozioni e suggestioni, filo che come lettere s’intreccia, si aggroviglia e si scioglie, filo che fa risuonare o smorzare i segni che vogliono essere parole, costrutto meraviglioso e misterioso non su carta ma su lenzuolo, elemento che ci avvolge dalla culla al sudario, compagno di vita dall’alfa all’omega.
“Ho dietro di me millenni di silenzi, di tentativi di poesia, di pane delle feste, di fili di telaio”, con queste parole Maria Lai definiva in pratica se stessa, la sua capacità di interpretare la sua terra senza mai essere locale, quel suo sapere innestare tradizioni e culture in maniera sempre coerente, quel sapere legare passato e presente, tradizione e innovazione, storia e leggenda, artigianalità e creatività con grande serietà ma giocando quasi, fino a che “i miei giochi li hanno chiamati arte”.
La bellissima esposizione a Palazzo Pitti di Firenze, curata da Elena Pontiggia – dall’8 marzo al 3 giugno – a parte il doveroso riconoscimento a una grande artista, risulta quasi un “atto dovuto” proprio per l’amore che Maria Lai ha sempre dimostrato per questa città a cominciare dalla “copia” delle mappe di Leonardo da Vinci sino a Il mare ha bisogno di fichi, opera realizzata per il ventesimo anniversario dell’alluvione.
Francesco De Masi
Foto Ufficio Stampa Palazzo Pitti