FAVOLA DEI GIORNI NOSTRI – Lo spettacolo in due atti di Gennaro Patrone
“Non si, non si dovrebbe dare da mangiare a chi non ha più fame” Marta sui Tubi
Prendete una valigia e tutto quello che può stare dentro a una valigia, una di quelle grandi, spaziose, comode da gran signore. Nelle tasche laterali sistemate con gran cura, piegate con minuzia le frasi ben costruite e i pensieri lunghi, ogni singola parola e il suo esatto contrario, poi aprite il balcone, uscite fuori, fate un bel respiro e senza pensarci due volte buttate tutto da un quinto piano, di quelli alti però. Perché una volta a teatro, comodamente seduti Gennaro Patrone, autore e regista, distruggerà tutte le nostre certezze smontando pezzo dopo pezzo il nostro puzzle più bello, giocando con le parole ci strapperà dalle mani la nostra coperta di linus e ci ritroveremo nudi e scoperti alla sua mercé. Quindi, senza indugi, usciamo allo scoperto e al suono di un semplice walzer, un cha cha cha, una salsa o forse una ballata, ma che dico, una rumba come quella dello scugnizzo Chiavichella – maschera e alter ego del suo creatore, padre e figlio della stessa persona – lasciamoci trasportare in questo mondo di favola, una favola dei giorni nostri, senza tempo perché quello non conta ma torna, come i conti che contano.
Andiamo con ordine e iniziamo dalla fine. Un grande applauso dal pubblico dell’Arcas, alziamoci in piedi e presentiamo i quattro personaggi, quattro maschere come vuole la commedia dell’arte a rappresentare diverse sfaccettature dell’umana comprensione, caricate nel costume e nella recitazione e delineando già dall’aspetto il carattere dei personaggi. Il Conte Don Salvatores (Alberto Pagliarulo) avido e attaccato al vil denaro, che trova pace e sollievo solo nelle sue amate pesetas, uomo che tutto sa e a cui tutto è dovuto; la Contessa Cosettina (Paola Vicedomini), donna bellissima e moglie infelice, costretta dalla famiglia a sposarsi giovane. Troverà l’amore quello finto tra le braccia di un malfattore, il falso prete Don Antonio Casatiellos (Gennaro Patrone), che tutto crede di poter muovere, burattino improvvisatosi burattinaio. E infine, come da copione, la maschera più brutta sporca e puzzolente che ci sia, “una vera chiavica di maschera”, Chiavichella (Luca Adelfi). Orfano per vocazione, cane da guardia per improvvisazione, figlio malvoluto e palo per natura, zingaro tra gli zingari, è il ritratto mancato di ognuno di noi. Finito l’applauso?
Torniamo all’inizio. Si accendono le luci, una voce narrante ci invita all’ascolto – tra le musiche di Claudio Rega – ci presenta gli interpreti e in un frenetico scambio di battute, equivoci, doppi sensi e false rotatorie scopriamo le carte e con in faccia una maschera diciamo a tutti la verità, la nostra verità perché – come Gennaro Patrone ci ricorda – con una maschera possiamo dire tutto e il contrario di tutto.
Una commedia divertente, un giallo senza delitto, un furto misterioso, un intrigo amoroso, forse una farsa. C’è il mondo in questa favola in due atti. Una risata, una mazzata, una fuga. Un triangolo di inganni e falsi tesori e, quando l’unica persona con una vera maschera – seppur sporca e puzzolente – in un mondo dove tutti senza indossarle portiamo delle maschere, ci mostra le cose per quelle che sono, noi non possiamo far altro che non credere e ridere di lui. Nessuno più di noi può conoscere la verità soprattutto quando a palesarla è un pezzente, un miserabile, una chiavica insomma. Il re è nudo grida il bambino ma nessuno gli crede.
Antonio Conte