“ELEPHANT WOMAN” AL TEATRO i DI MILANO
Ernerst Hemingway amava visceralmente la corrida: vi vedeva il gioco tragico della vita contro la morte, nel momento in cui non sono previste vie d’uscita, ma esistono regole ferree per la cui trasgressione c’è in palio la vita. Infatti – sostiene lo scrittore – richiede più incoscienza, coraggio, abilità e ancora coraggio di qualsiasi altra cosa.
Non c’è corrida in “Elephant woman”, in scena al Teatro i. Ma c’è, potente, una eco in cui lo scrittore di Ketchum si sarebbe riconosciuto. C’è vita, morte e tragedia, c’è Hemingway e il fucile puntato in bocca con cui ha deciso di morire, c’è la (sua) Death in the afternoon.
C’è una maschera dal sorriso inquietante e il rossetto violento emerso dal buio, ma c’è soprattutto un corpo che Topazio, con il suo nome rubato a una qualsiasi telenovela, luccicante come la vita di lussi che sogna per sé, ha trasformato in arma, di cui la pistola che la ragazza maneggia, agile e sardonica, è soltanto la plastica estensione. Un’arma maneggiata con malizia, ora ostentata, ora velata quanto basta perché sortisca meglio il suo effetto. Per ottenere tutto quello che può desiderare chi da sempre conosce e abita un mondo notturno e torbido eppure estremamente quotidiano e vicinissimo, fatto di alcool, droghe, club notturni in cui il confine tra potere ostentato e sottomissione si sfuma. Anche per Topazio e la sua amica B che, come tutto il resto, nel buio celano un doppio volto. Donna ed elefante, padrona e semplice cubista, libera e schiava. Qual è il vero volto della ragazza che si lancia in un road movie senza regole – “dove andiamo? Non importa, ma dobbiamo andare”, direbbe Jack Kerouac – tra i ricordi e le illusioni? La donna che gioca con il sesso o la bambina nella cui voce sottile la morte – e l’omicidio – deriva inevitabile della corsa sul crinale della solitudine e della vendetta – prende i contorni della favola nera, il sogno della normalità l’incubo dello stupro del padre nell’indifferenza della madre, raccontato con una finezza spietata.
Se non è inedita la parabola della maudit, in questo caso barista al casinò di Saint Vincent prima, prostituta nella Milano di oggi poi, è d’altra parte estremamente efficace il tono, poetico e diretto insieme, intessuto di frammenti di frasi spezzati e ricomposti, che la regia di Andrea Gattinoni sottolinea per tagli di luce che squarciano un buio prepotente. Una straordinaria Silvia Lorenzo, multiforme e spaventosa, leggiadra ed (auto)distruttiva, a riempire la scena di grida, sussurri e persino canti, con la malinconia disperata di Luigi Tenco a fare dal fil rouge (“Angela credimi, io non volevo..”). Lei e il suo corpo, il suo petto (semi) nudo, che sarebbe stato una sottolineatura financo eccessiva di una narrazione già efficace di per sé, acquisiscono invece senso nel momento in cui legge la consapevolezza che sottendono. Quello di Topazio è un corpo guardato sempre da uno sguardo maschile, definito da esso anche quando lei crede di aver fatto dell’oscenità la sua personale forma di ribellione. Topazio è carne, è la gemma che brilla soltanto se qualcuno la guarda. È il grido che si sente solo se qualcuno lo ascolta.
È la corrida, appunto, la battaglia tra la morte e la vita. Lo scontro tra due metà che si scoprono una sola. La bimba e la donna, appunto, la vittima e il carnefice. Topazio B. Imprigionata nella coazione a ripetere la stessa parte, con la libertà di tornare indietro dalla morte alla vita, sì, ma la condanna di non vedere la liberà dopo l’ultimo colpo.
Chiara Palumbo