Domenico Castaldo si sposta dal Cimitero di San Pietro in Vincoli al Teatro Gobetti
La settimana scorsa, al Teatro Gobetti di Torino, è andato in scena L’arte del vivere e del morire. Tre repliche – dal 20 al 22 luglio – di uno spettacolo che alcuni torinesi conoscono da tempo, poiché negli anni passati è già stato presentato al Cimitero di San Pietro in Vincoli, dove è di stanza la compagnia di Domenico Castaldo, che qui è regista e interprete assieme ai suoi discepoli: Ginevra Giachetti, Marta Laneri, Rui Albert Padul, Natalia Sangiorgio, Judit Beltri Panisello, Marta Maltese, Zi Long Ying. E nelle cripte di San Pietro, al fresco e al buio, questo lavoro di danza audio-tattile risultava suggestivo, intrigante: in teatro, con la riedificazione della quarta parete, parte di quell’allure misterica viene dispersa, nebulizzata, o magari rimane più semplicemente imprigionata proprio fra le quattro dimensioni del palco. Ad ogni modo, di che si tratta? Probabilmente gli unici ai quali si potrebbe porre questa domanda sono gli artisti succitati, ma qui abbiamo come l’impressione che la risposta, se si seguono i canoni dialettici della conversazione tra docenti e discenti, non risulterebbe esaustiva. La scheda di sala riferisce di arte mimetica, drammaturgia musicale, ricerca vocale. Effettivamente gli interpreti cantano (a cappella) e riproducono i suoni della natura, in un moto perpetuo e logorroico di vibrazioni, versi d’uccello e richiami alla fauna in genere. Castaldo è come Biancaneve, ma meno soave: con i suoi adepti (che, guarda caso, sono sette) intona una serie infinita di vocalizzi i quali celebrano ed esaltano l’essenza della vita, della natura. Canti originali, diaframmatici, basati sull’empatia tra le specie. Ogni tanto una pausa: segmenti poetici e prosaici di Rabindranath Tagore, Andrej Tarkovskij, Raimon Panikkar, Natalia Ginzburg. Sembra una messa, un rito di una religione panica per figli dei fiori asincroni rispetto al presente. Poi per carità, né l’anacronismo né il passatismo sono dei peccati. Purtuttavia possono confondere, se non opportunamente rimodulati. Alcuni, infatti, applaudono perplessi. Altri sono molto contenti, convinti, soddisfatti. Interpellando un fanciullo che per la prima volta dopo anni torna a teatro, uno studente di sociologia bello e aitante, sentiamo riferire di uno spettacolo affascinante, forse vagamente autoreferenziale, ma in fin dei conti anche potente, denso di significati e di simboli. Invece, il professor Candeli, che insegna greco e latino in un ginnasio di provincia, afferma senza vergogna che non ha capito nulla, ma che lo ha trovato gradevole e non troppo prolisso. C’è chi parla di drammaturgia assente, chi di rinnovamento del teatro musicale. Nell’onorevole tentativo di rimanere obiettivi (e consapevoli di quanto sia poco probabile riuscirvi) noi riteniamo che si tratti di un’esibizione ottimamente pensata, sempre in bilico fra l’astratto e il concreto ma mai metafisica, dove si dà un ampio spazio alle capacità canore e sinfoniche e dove però l’impalpabilità del traguardo drammatico può risultare, a tratti, indisponente: la continua tensione sonora, per quanto encomiabile dal punto di vista dell’esecuzione, livella i momenti che sono fisiologici in qualunque pièce, annullando così le logiche del pathos e del climax. È come se si tentasse di creare un atto performativo di perpetua emozionalità, senza cioè né alti né bassi. Solo altissimi: obiettivo sicuramente intrepido e quindi lodevole, ma in termini pratici tutto questo ardimento può risultare se non sfrontato quantomeno imprudente.
Davide Maria Azzarello